"Gracias a la vida que me ha dado tanto
Me ha dado la risa y me ha dado el llanto
Así yo distingo dicha de quebranto
Los dos materiales que forman mi canto
Y el canto de ustedes que es el mismo canto
Y el canto de todos que es mi propio canto..."
Violeta Parra è morta suicida all'età di 50 anni, dopo aver composto il suo testamento spirituale ("Gracias a la vida"), riprodotto parzialmente in epigrafe, come se avesse deciso di congedarsi dalla vita dopo averne celebrato la bellezza intrinseca e la poesia. Rappresentazione perfetta di una traiettoria emblematica fatta di grandi slanci, passioni, sofferenze, fragilità, desideri di riscatto individuali e collettivi, un insieme di elementi contraddittori che il film di Andres Wood ci propone senza spettacolarizzazioni e senza celebrazioni agiografiche.
Violeta era un’artista straordinariamente dotata e versatile: non solo grande cantautrice, ma anche scrittrice, poetessa, pittrice e scultrice, attenta al recupero delle tradizioni popolari (la cui ricchezza in America Latina ha una forza pari soltanto alla ferocia della colonizzazione), innovatrice e fondatrice della “Nueva canciòn chilena”. Donna appassionata, generosa, impegnata nelle lotte di emancipazione del proprio popolo, visionaria e con una sensibilità poetica eccezionale. Allo stesso tempo, fragile, possessiva, incapace di mediazioni, almeno per ciò che riteneva veramente importante, desiderosa di amore assoluto, orgogliosa e testarda. Caratteristiche di una personalità debordante, che traeva energia e ispirazione dai sentimenti, ma che i sentimenti, se venivano negati, contribuivano a ferire, a lacerare.
Il film di Andres Wood, regista cileno, evita questi pericoli proponendoci una ritratto dell’artista latinoamericana attento alla complessità del persona, alle contraddizioni di una donna che è maturata creativamente negli anni ’50 in un contesto maschilista e periferico rispetto alle direttrici culturali egemoni. Lo fa con un’opera attenta ai chiaroscuri, lontana dall’epopea e dalla celebrazione, che inizia in uno sperduto paesino dove Violeta e il suo gruppo si esibiscono davanti a uno scarso pubblico. “Violeta se fué a los cielos” ricostruisce il percorso dell’artista con salti temporali che restituiscono, come in un puzzle, un’immagine composita della protagonista. Il viaggio a Varsavia nel ’54, il padre alcolista, il rapporto con i 4 figli nati nei suoi due matrimoni, la permanenza in Francia dove espose i suoi quadri al Louvre, la relazione con il musicologo Gilbert Favrè, più giovane di lei di 20 anni, suo amore appassionato e tormentato, i tentativi di edificare la Universidad del folklore, le sensazioni di abbandono dopo la fine del suo rapporto, una depressione strisciante che si è insinuata dentro di lei fino all’esito fatale, tutti questi elementi sono presentati senza enfasi, con un approccio onesto e rispettoso, ma non compiacente.
L’attrice che interpreta Violeta –Francisca Gavilan- è eccellente e si è calata nel ruolo con un’aderenza stupefacente al personaggio. La Gavilan si dimostra anche ottima cantante, la sua esecuzione di varl pezzi della Parra è realmente molto buona.
Il film di Wood mi è parso efficace e asciutto, non cede alla commozione e alla retorica – che pure sono insite nella materia trattata-, non celebra un’icona della cultura latinoamericana, è percorso da un sottile filo di tristezza, come se gli sterminati panorami andini, la vastità del continente, gli ideali culturali e politici di chi vuole edificare una società migliore si scontrassero con un destino di solitudine e di isolamento iscritto nei volti, nelle pietre, nella geografia di un territorio splendido e dimenticato.
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