Lettere da Iwo Jima |
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Un film di Clint Eastwood.
Con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Shido Nakamura, Tsuyoshi Ihara, Ryo Kase.
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Titolo originale Letters From Iwo Jima.
Drammatico,
durata 142 min.
- USA 2006.
- Warner Bros Italia
uscita venerdì 16 febbraio 2007.
MYMONETRO
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La guerra come follia
di olgaFeedback: |
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giovedì 22 febbraio 2007 | ||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
LETTERS FROM IWO JIMA di Clint Eastwood con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Tsuyoshi Ihara. Ancora un film di guerra e sulla guerra, ancora protagonisti soldati americani e giapponesi, ma quanta strada si è fatta da quei filmacci propagandistici degli anni bellici, che ci mostravano da una parte gli eroici generosi marines e dall’altra i feroci e disumani musi gialli. C’è stata da allora una cospicua produzione di narrativa e di film sull’argomento, che non ha mai smesso di esercitare sullo spettatore quella carica di coinvolgimento e di drammaticità che gli è propria. Su questa via si muove, e con successo, Clint Eeastwood, il lontano pistolero dei western-spaghetti degli anni ’60, che, passato alla regia, continua ad ogni opera a stupire e a suscitare consensi. Sull’episodio Eastwood ci aveva già dato Flags of Our Fathers. Se in quel film il regista raccontava la sanguinosa conquista dell’isola da parte delle truppe americane, in Letters from Iwo Jima l’attenzione si sposta sul versante dei difensori. Insomma si tratta della stessa storia, stesso sfondo, stessa sceneggiatura, ma il tutto visto dall’altra parte. Nel film, con 142 minuti di racconto mozzafiato, egli ci introduce nel mondo insensato e disumano della guerra tout court, presentata con crudo realismo come strumento di risoluzione di contrasti internazionali, alla ricerca dell’annientamento totale del nemico. L’attenzione dell’autore si concentra da una parte sul dogmatismo ideologico dei governi che vedono nel conflitto armato l’unica possibilità di affermare la loro smania di potere, dall’altra sulla follia di comandanti militari, dal più alto grado al semplice graduato, che nella loro esaltazione non tengono in alcun conto la vita e il destino dei sottoposti. Tramite le lettere scritte dai soldati giapponesi, mai spedite e ritrovate di recente in vecchie trincee e gallerie abbandonate, Eastwood ricostruisce il quadro di quella umanità condannata a morire o per mano delle bombe americane o per mano del suicidio d’onore imposto non solo dai vertici del comando ma anche da quei graduati che in quanto a fanatismo non si lasciano battere da nessuno. Il pregio del film è proprio in questa alternativa che si intuisce fin dalle prime inquadrature e tiene lo spettatore col fiato sospeso fino alla fine. Lo sguardo del regista sa mantenersi freddo e distante, coerente con quel rigido clima di esasperato militarismo che sottolinea ogni scena. Disturbano se mai quei pochi flash-back che ci mostrano momenti di umanità presenti in alcuni dei protagonisti; li si avverte come estranei a quel mondo in cui nulla ha una giustificazione se non il prevalere della logica assurda e mortale della guerra. I pochi segnali di critica e di disaffezione che si levano su questo sfondo vengono subito spenti e repressi con feroce brutalità. Non mancano altri personaggi vivi e veri, spesso contraddittori, incerti tra il sacrifico estremo e il salvarsi la pelle: c’è chi si limita a mugugnare sottovoce, chi prova a disertare e viene subito ucciso, chi affronta il fuoco nemico o il suicidio. Eastwood mostra ancora le sue doti di grande regista nell’adozione di geniali artifici, quali l’uso di un bianco e nero che si accende solo del rosso delle esplosioni o del sangue o il parlato originale sottotitolato. L’ex-pistolero continua dunque a produrre film che non deludono, di grande impatto emotivo, di grande valenza artistica, di profondo stimolo alla riflessione e alla libertà di critica.
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