Niente da nascondere

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Un film di Michael Haneke. Con Juliette Binoche, Daniel Auteuil, Annie Girardot, Maurice Bénichou, Bernard Le Coq.
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Titolo originale Caché. Drammatico, durata 117 min. - Francia, Germania, Austria, Italia 2005. - Bim Distribuzione uscita venerdì 14 ottobre 2005. MYMONETRO Niente da nascondere * * * 1/2 - valutazione media: 3,57 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

QUESTO SÌ CHE È UN THRILLER. Valutazione 5 stelle su cinque

di THEOPHILUS


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lunedì 9 dicembre 2013

CACHÉ
 
Il primo commento che c'è venuto spontaneo alla bocca al termine di Caché, premiato a Cannes 2005 per la regia, è che Michael Haneke è un sadico. Ma un sadico con le idee chiare e che sa giocare bene con le paure del pubblico. Un sadico, però, che non ha neppure pietà di se stesso, poiché riteniamo che in questo caso il classico processo d’identificazione vada innanzitutto dai personaggi e dalla vita verso il regista. Caché è un thriller come lo intendiamo noi, non truculento (c’è una sola – magistrale – scena di sangue che lascia letteralmente senza fiato), non esteriormente violento, ma che ha in sé e inietta goccia a goccia un continuo filo d’angoscia, come una flebo. Non consente una scappatoia rassicurante grazie al mostrarci qualcosa di terrificante ma del tutto avulsa da un contesto normale, bensì dà luogo ad una inevitabile immedesimazione con personaggi facilmente riconoscibili che si trovano a vivere situazioni che li destabilizzano, ma poco a poco, in maniera ben dosata e in cui la norma si fa ancora più paurosa, perché, in quanto tale, ti riguarda per forza. Alla fine si è presi da un meccanismo che si fonda sull’ansia dell’incognito, su qualcosa d’invisibile che è fuori o dentro di te e ti minaccia senza che tu possa rendertene conto. È come la vita d'oggi, che avvertiamo – noi del versante nord-occidentale del globo - appesa ad un filo perché il nostro benessere è minacciato soprattutto dalla paura di perderlo.
È l’uomo (il regista) a guardarsi dentro in questo film, senza chiarire nulla a chi lo osserva e senza  potersi offrire alcuna garanzia, giacché non ha sicurezze su cui poggiare.
Il regista e il pubblico si specchiano, dunque, nel protagonista maschile. George (chi meglio di Daniel Auteuil poteva interpretare questa parte?), è un uomo apparentemente calmo e tranquillo che viene insidiato da se stesso. Il regista lo guarda e gioca a rimpiattino con lui e George forse non ne è al corrente (ci chiediamo, con questo, se Auteil e Juliette Binoche, che interpreta la parte della moglie Anne, fossero del tutto a conoscenza dei ruoli che svolgevano all’interno del film e della manipolazione a cui il regista può averli assoggettati).
In effetti, abbiamo sospettato quasi da subito che il mittente anonimo delle videocassette che turba l’esistenza fin lì – c’immaginiamo, ma non ne siamo certi – relativamente serena di una famiglia della medio alta borghesia parigina, fosse il regista stesso. Solo lui può spiare la vita dei protagonisti e insidiarne il tran tran quotidiano, perché solo lui può trasporre le immagini incriminate dalla pellicola con la quale gira il film alle videocassette riprodotte attraverso il televisore. Quando, finalmente, George confessa ad Anne di credere di sapere chi sia il colpevole, implicitamente dichiara se stesso colpevole, ora negando ora addossandosi una primigenia responsabilità che, ad ogni modo, il pubblico non avrà mai i mezzi di appurare con certezza, navigando nel territorio difficilmente percorribile del subconscio.  
Alla fine del film, la chiara sensazione che molti dubbi non siano stati chiariti permarrà. Ma noi siamo altrettanto convinti che questo sia esattamente lo scopo del regista, se non, addirittura, la sua aperta ammissione di non potere sciogliere alcuno degli enigmi proposti, perché sono i suoi stessi enigmi, il simbolo della paura di esistere che ci accomuna. C’è una densa schermaglia nel linguaggio, una tensione che è sempre in agguato per accumulo di cose nascoste o da nascondere, dette o non dette, di colpe o mancate ammissioni di colpa, fino al sentirsi colpevoli senza essere certi di esserlo.
Avevamo, dapprima, anche pensato ad una sostanziale identità fra il cineasta e l’occhio del grande fratello di Orwell, o, addirittura, l’occhio di Dio, ma queste ci sono sembrate immediatamente soluzioni troppo facili e accomodanti per un regista che ha sempre proposto storie molto dure e di ardua decifrazione. Quel qualcuno che spia la tua vita e i tuoi incontri con altre persone altro non è che un guardarsi dal di fuori, un proiettarsi fuori da se stesso per esaminarsi in modo meno compiacente e assolutorio.
Se Caché è titolo che gioca a nascondino con l’emotività del pubblico, la traduzione italiana Niente da nascondere sottolinea invece l’autodifesa del protagonista nei momenti in cui tenta di farsi fuori dai sensi di colpa. Egli cela alla moglie un episodio della propria infanzia e questo c’è parso un espediente usato dal regista come esca per creare tensioni e verso cui convogliare il bisogno del pubblico di trovare una spiegazione. Ma non ci si riuscirà mai nel film e quell’infilarsi nudo di George sotto le coperte, nascosto dal buio della sua stanza, ci ha rivelato una sostanziale dicotomia, una lacerazione del protagonista (di Michael Haneke), che ha bisogno di indagare e di essere indagato sulla propria colpevolezza/innocenza: ma né lui, né altri potrà venirne a capo.
Importante, ancora, è lo sguardo implacabile sul comportamento che George e la moglie tengono col figlio. Freddi, quasi glaciali nella loro meticolosa incapacità di avere una reazione emotiva violenta nel momento in cui il figlio scompare, i due sono perfetta espressione del cliché buonistico e rassicurante che trionfa nella nostra società, quando si accodano alla logica del senso di colpa nel momento del suo ritorno, la mattina dopo. È la madre che chiede scusa al figlio di appena 12 anni, perché ne ha paura, è incapace di difendersi da lui e ha bisogno di credere di aver sbagliato, per poter poi avere l’alibi che esista per lei un rimedio, una redenzione. Il figlio, che, invece, necessiterebbe di essere aggredito, a quel punto sfugge  disgustato l’abbraccio materno.
La scena finale, la cinepresa piazzata davanti alla scuola, può adombrare ogni tipo di scenario e scatenare le domande più oscure alle quali, siamo certi, il pubblico non vorrà nemmeno provarsi a rispondere.
 
Enzo Vignoli,
16 ottobre 2005.
 

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