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CLOSER
Magari non c’è alcuna attinenza, ma la nostra sensazione è che questo film faccia il paio con Ocean’s twelve, che abbiamo visto subito prima: nel senso che - premesse e fatte salve le loro notevoli differenze - entrambe le pellicole ci sono sembrate innanzitutto un freddo esercizio stilistico.
Il film di Soderbergh fa leva sulla felice e fortunata esperienza del capitolo precedente della banda di Danny Ocean e si affida al fascino collaudato di un cast stellare per ammannirci un cerebrale e calligrafico divertissement, da cui il pubblico è escluso. Closer si dibatte superficialmente attorno alla nevrosi dei quattro protagonisti (meno male che non sono dodici) senza però venirne a capo, più precisamente senza nemmeno tentare di venirne a capo, per cui lo spettatore avrà concentrato invano le sue speranze sul finale del film, dato che, nemmeno a quel punto, nulla sarà chiarito, motivato, inquadrato.
La scenografia prevede un metaforico tavolo da ping-pong in cui si gioca un doppio misto e intercambiabile: non avevamo certo bisogno di Closerper sapere che la coppia è in crisi, anche perché questo film non ci offre alcuno sguardo, prospettico o dall’interno, sull’immortale sentimento dell’amore, né ci mostra mai alcuna motivazione per i continui ripensamenti di questa banda dei quattro, che non sia la solita frusta e stereotipata gelosia, la classica incapacità di non oltrepassare la soglia di crisi a ripetizione, la svagata e mai analizzata fotocopia di una nevrotica condotta sociale che è sempre in bella mostra, ma che non si tenta mai di interpretare, limitandosi il regista Mike Nichols a celebrare l’epidermico delirio di onnipotenza che si chiude rapidamente su se stesso, un gatto che si morde la coda.
Non bastano una sceneggiatura accurata e pungente – opera di Patrick Marber - né le ottime qualità teatrali di Clive Owen (che ci ha fatto pensare a Timothy Dalton) o quelle di fragile narcisista che sa immettere nel film Jude Law o, ancora, la tenera e provocante bellezza di Natalie Portmana valorizzare un film che si rifiuta di esprimersi, che fa professione di ricerca stilistica sul vuoto spirituale, sull’esteriorità della condotta umana, senza nemmeno provarsi a dare una giustificazione a questo nulla, magari col sottinteso pretesto che la vita e l’uomo sono proprio così.
Vediamo Anna (Julia Roberts), Alice (Natalie Portman), Dan (Jude Law), Larry (Clive Owen) quasi a corteggiare le proprie ripicche e a tentare di avvalorare qualcosa di cui non è dato scorgere l’essenza, avvertiamo i fantasmi dei loro dolori, senza però la lotta per capirci qualcosa e per evitarli. Alcune affermazioni, che potrebbero essere centrali nell’esistenza di un uomo e rivelare una vera filosofia di vita, sono lasciate sole a se stesse, prive della necessaria elaborazione interiore e, come tali, rimangono lettera morta per il partner di turno a cui sono dirette: Dan che afferma che le bugie sono il pane quotidiano del mondoe che non trova nulla di affascinante nella verità, pone in rilievo solo l’aspetto esteriore di una necessaria condizione umana e non s’incontra con Anna, quando ella richiede, quale requisito e prova dell’amore, il perdono di un dato per lei insignificante; quando poi Larry si lascia andare a scene di gelosia nei confronti di Anna - in realtà, il suo atteggiamento sembra rivelare più un animo ferito nella propria dignità - in qualche modo non lega con la propria affermazione che non si conoscono le basi dell’amore se non si sa che cosa sia il compromesso; Alice che si domanda ma dov’è questo amore?Non riesco a vederlo, non riesco a toccarlo, non potrà certo coagulare con la fragile evanescenza di Dan.
Ad ogni sequenza siamo proiettati in un futuro posticipato di settimane, mesi e, in almeno un caso, anche di anni rispetto alla scena precedente e, soprattutto, in una situazione del tutto inattesa, dati i presupposti. La storia salta le tappe di avvicinamento e, soprattutto, quelle di consolidamento dei rapporti dei protagonisti, concentrandosi solo su quelle dei loro allontanamenti, quasi che le prime non esistano, o che, forse dandole per scontate, comunque non interessino, come se non possano essere loro a contenere le giustificazioni che noi andiamo cercando. Così facendo, però, si finisce col dare per scontati anche i distacchi, che appaiono ogni volta frutto di menti schizofreniche che seguano regole immotivate. Il regista ci ha narrato il vuoto degli addii privandoli dell’angoscia e del dolore in essi sottesi, che ha scavato via preventivamente, così come il macabro lavoro della malattia consuma il corpo dell’uomo e chi lo guardi dal di fuori ne colga solo i drammatici effetti.
Ci ha stupito questa pessimistica assenza di ogni tentativo di arginare il malee, anche se non speravamo nella soluzione a portata di mano del problema coppia, ci ha francamente deluso l’esposizione acritica di una sorta di routinedel ripensamento, specchio privo di qualsiasi problematicità che si limita a riflettere realtà sociali e individuali in modo esteriore, quasi per il gusto dell’effetto fine a se stesso.
Enzo Vignoli
1 gennaio 2005.
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