Roberto Nepoti
La Repubblica
Anni '50. I Paesi scandinavi sono in pieno boom economico. Lo Home Research Institute svedese s'incarica di studiare il modo in cui si comportano i maschi celibi norvegesi quando stanno in cucina, allo scopo di funzionalizzare e ottimizzare i servizi di quella parte della casa. La regola è che l'osservatore se ne stia arrampicato su una sedia sistemata in un angolo, senza scambiare parola con l'osservato. Nella prima parte di Kitchen Stories il precetto è rispettato, dando luogo a godibilissimi momenti di comico visivo che fanno venire in mente - nientedimeno - il grande Jacques Tati.
Nella seconda parte la regola cade, nasce un'amicizia tra l'analista e la (inizialmente riluttante) cavia e il film di Bent Hamer prende piuttosto un andamento psicologico; magari meno originale però misurato e pieno di tenerezza. Anche perché continua ad aleggiarvi un tipo d'umorismo tipicamente scandinavo (pensiamo ai film di Aki Kaurismaki), fatto di lentezza, pause, gusto dell'assurdo.
Lo stile di messa in scena del regista norvegese, al suo terzo lungometraggio, è semplice e funzionale; bravissimi gli attori, che mostrano grande padronanza dei tempi da commedia. Dietro lo strato divertente e affettuoso, però, fa capolino uno sguardo critico piuttosto acuminato: sull'ossessione della classificazione, i prodromi del "grande fratello" (spiare le persone per aumentare i rendimenti), l'implacabile analisi dei nostri comportamenti privati a fini di mercato.
Da Repubblica, 4 gennaio 2003
di Roberto Nepoti, 4 gennaio 2003