L'intendente Sanshô

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Un film di Kenji Mizoguchi. Con Kyôko Kagawa, Kinuyo Tanaka, Kisho Hayanagi Titolo originale Sanshô Dayû. Drammatico, Ratings: Kids+13, b/n durata 124 min. - Giappone 1954.
   
   
   

Epopea familiare del periodo Heian

di gianleo67


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venerdì 9 marzo 2018

I due figli di un governatore in esilio, separati dalla madre dopo un rapimento e venduti come schiavi allo spietato intendente Sansho, crescono nella speranza di liberarsi dal giogo che li tiene avvinti e ricongiungersi finalmente ai genitori. Quando la giovane Anju si sacrifica per consentire la fuga dell'amato fratello Zushio, quest'ultimo riuscirà ad assurgere ad una importante carica amministrativa, vendicarsi del crudele schiavista e ritrovare fortunosamente la madre anziana ormai prossima alla follia.
Il montaggio alternato e la dissolvenza incrociata delle sequenze iniziali replica, in brevi ellissi, i destini paralleli di un padre onorevole caduto in disgrazia e le peregrinazioni della sua famiglia esposta agli accidenti della fortuna: è questo l'incipit dell'affresco corale e storico che Mizoguchi trae dall'omonimo racconto di Mori Rintaro, spostando la classica ambientazione del jidai-geki dal più recente (e pacifico) periodo Edo al Giappone medievale del periodo Heian e con esso alle tumultose lotte intestine di un'epoca oscura dove inscrivere con sublime potenza drammaturgica i temi principali della sua poetica: il primato dei valori umani sugli spietati meccanismi attraverso cui si perpetua il potere e la tragica elegia del sacrificio personale come momento obbligato di liberazione dal giogo iniquo delle convenzioni sociali. Se è vero, come recita la didascalia a inizio film, che le origini della leggenda affondano nel caos politico e sociale dei secoli bui, la parabola esemplare di una famiglia altolocata caduta in disgrazia e costretta alla diaspora ed all'umiliazione della schiavitù, rimarca con maggiore forza il valore di sentimenti universali (la giustizia, l'amore, la solidarietà) che emergono dall'implacabile ostracismo di soverchianti forze storiche sancendo, nel bene più elevato dei legami e dell'unità familiare, la sopravvivenza di un'etica della compassione che consente all'uomo di rimanere tale non ostante il crudele retaggio della propria natura.
Ancora una volta in Mizoguchi però, le alterne vicende di un nobile subalterno al potere marziale e del compassionevole figlio di uno spietato schiavista, esemplificano i caratteri indulgenti di uomini deboli a causa del cui idealismo (o della cui natura imbelle) le donne sotto la loro ala protrettrice sono destinate allo spietato imperio di uomini violenti e meschini: una progressione tragica che indulge talora nei toni più patetici del melodramma, ma che porta alle estreme conseguenze un rapporto di forze in cui le figure muliebri sono l'elemento sacrificale di un legame d'amorosi sensi per la cui salvaguardia sono comunque destinate a soccombere. Utimo terminale di questa catena di infausti raccordi della sorte, è proprio il sacrificio finale della sorella Anju (rinominata Shinobu: "affinche possa sopportare molta sofferenza") immolata sull'altare della felicità del fratello Zushio; la prima (una donna) che tiene fede alla promessa di un padre che aveva raccomandato al primogenito di proteggere la figlia più piccola e che si immola nella struggente scena del lago in cui si lascia annegare e la cui superficie rimane appena increspata dalla onde concentriche che chiudono l'eterno cerchio delle cose create nell'atto finale della sua giovane vita.
Come sempre l'accurata ricostruzione dell'ambientazione storica (compreso il potere temporale di un buddhismo funzionale al controllo imperiale), è la cornice entro la quale si riproduce il dramma senza tempo di una vicenda umana in cui l'infelicità è cagionata dalla complementare alternanza dei caratteri maschili: il figlio di un padre buono costretto dagli eventi a diventare lo spietato servitore di un abietto padre putativo, e quello di un genitore degenere costretto invece a rivendicare nel disconoscimento dei propri natali l'infelice libertà di tutti i diseredati. Il bene ed il male, come nella simbolica rappresentazione del dualismo umano cui fanno riferimento i frequenti simbolismi disseminati lungo un tortuoso percorso di riscatto ed emancipazione, sono il misterioso segno di una sorte indecifrabile dove più del carattere che si è avuto in eredità conta la crudele aleatoreità della storia e dei destini. Una visione lirica e pessimista insieme quella di Mizoguchi, dove la peculiarità della infausta vicenda di fratelli di nobile lignaggio riecheggia come una leggenda nel canto di dolore di una madre infelice; una rappresentazione archetipica del passato oscuro del Giappone feudale, che ricapitola le mille storie di fratelli perduti nelle altrettante leggende di universali mitopoiesi; come pure le usanze tribali di anziani reietti abbandonati a morire sulla solitaria cima di impervie montagne (Narayama Bushi-ko) o sulla spiaggia desolata di un remoto arenile su cui si è abbattuta l'implacabile furia di un devastante tsunami. L'ampio respiro della travagliata epopea di una famiglia sciagurata, tra il ritmo acceso delle scene d'azione e le meste agnizioni di ricongiungimenti filiali, si chiude nel tragico epilogo di un riscatto morale in cui la classica dialettica tra dovere e sentimento della tradizione narrativa a cui si ispira, volge a favore dei principi di umanità il suo accorato appello di speranza. Straordinari i contributi tecnici, dalla fotografia e i movimenti di macchina di Kazuo Miyagawa all'avvicente montaggio di Mitsuzô Miyata. Un blockbuster deluxe, quello del maestro giapponese, acclamato dalla critica e dal pubblico, che condivise il Leone d'Argento a Venezia 1954, tra gli altri, con I sette samurai del connazionale Kurosawa Akira.

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