Possession

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Un film di Andrzej Zulawski. Con Isabelle Adjani, Sam Neill, Heinz Bennent, Margit Carstensen, Carl Duering.
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Titolo originale Possession. Horror, durata 127 min. - Francia 1981. MYMONETRO Possession * * * - - valutazione media: 3,00 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Because you say "I" for me Valutazione 5 stelle su cinque

di ugogigio


Feedback: 728 | altri commenti e recensioni di ugogigio
sabato 22 febbraio 2014

Magmatico e straripante, labirintico, angoscioso, straniante, Possession di Andrzej Zulawski è una di quelle oscure perle della cinematografia ingiustamente misconosciute o dimenticate dai più, un vero gioiello dai riflessi costantemente cangianti che ambisce come ben pochi film a riassumere in sé tutti gli interrogativi più urgenti dell’umana esistenza. In una desolata Berlino est, dipinta da rapidi movimenti di macchina che assecondano le frenetiche traiettorie dei personaggi, si consumano l’angosciante discesa nella disperazione dell’essere e lo svuotamento emotivo e morale di una donna combattuta tra il dubbio e la fede, cui una bellissima ed immensa Isabelle Adjani dona una grazia e una fragilità dolenti uniche. Oppressa, attanagliata, dilacerata da un oscuro male dell’animo, la cinepresa la viviseziona spietatamente, ne scruta e registra il soffocante dolore con primissimi piani che tolgono il fiato. È la lotta tra due istanze inconciliabili, eppure entrambe necessarie, che come due sorelle Anna vede convivere in sé e nel mondo, a dibattersi in lei dilaniandole l’anima: da un lato la Fede, il vagheggiamento di un ordine razionale superiore, dall’altro la Sorte, il riconoscimento disincantato dell’arida insensatezza dell’universo. Esasperata da questo scontro irrisolvibile tra Fede e Sorte, eppure alla ricerca di una terza, impraticabile via che permetta infine di penetrare acutamente la realtà, di radicarvisi senza per questo doverla deformare o surrogare, Anna finisce col rimanere prosciugata di ogni senso vitale, perdendo ogni misura etica e principio razionale. E finisce anche col perdere la Fede, letteralmente con uno sconvolgente aborto spontaneo, perdendo così anche la possibilità di trovare un senso in un universo dominato dal Caso. In tutto il film regnano infatti il caos, la crisi delle meschinità che danno certezza aiutando ad imbrigliare in un’impalcatura precaria l’informe materia dell’essere, la nevrosi e l’isteria, gli spasmi incontrollati e la catatonia, l’emergere del disgusto e della ripugnanza di sé, il vagare vorticoso senza una meta in un mondo il cui unico cardine certo si rivela essere il predominio incontrastato del Male. Il Bene non è che mero riflettere sul Male, nell’inane tentativo di comprenderlo e porvi rimedio, quando è invece il Male stesso a divenire dipendenza, bisogno impellente, necessità senza la quale è impossibile esistere. E proprio dall’aborto della Fede e dall’avanzare del dubbio in lei si genererà l’incarnazione del principio metafisico stesso del Male cosmico, simboleggiato dal repellente viscidume della creatura dell’appartamento. Con questa Anna intraprenderà una morbosa relazione simbiotica trovando appagamento al suo bisogno carnale e spirituale e allo stesso tempo prendendosene cura come di un figlio a tutti gli effetti: il Male, unico appiglio cui aggrapparsi nel caos del mondo, diventerà così la sua Fede. Giunta al termine di un aberrante processo di progressiva maturazione, tale creatura si rivelerà essere infine un doppione di Mark, marito di Anna e personaggio focale del film, e in chiusura vi si alluderà addirittura come ad una sorta di Anticristo, premonendo l’ombra di un’apocalisse atomica universale. Sotto l’aspetto di un film proteiforme e solo faticosamente classificabile come drammatico/orrorifico (ma con ampie contaminazioni nonsense e persino un certo umorismo grottesco e surreale) si sviluppa dunque una profonda e complessa riflessione su Dio, il Male,(continua)

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