Film non consigliato a chi cerca diversivi dal tono consolatorio con cui evadere dalla realtà dopo la solita giornata squallida e frustrante. Per quanto mi riguarda, infatti, il maggior pregio di Ivano De Matteo è proprio quello di non aver paura di descriverla per quello che è, la maledetta realtà! Oggettivamente. Freddamente. Senza cedere alla puerile tentazione di distorcerla per assecondare i desideri di fuga che essa genera nella stragrande maggioranza del pubblico.
Come "Gli equilibristi" - il suo capolavoro - e il meglio della sua produzione - da "La bella gente" a "Villetta con ospiti" a "I nostri ragazzi" -, questo film è una bastonata sui cavi poplitei (si vede, vero, che faccio pilates?). Tanto che al termine della visione mi tremavano letteralmente gambe, confermandomi una volta di più nella convinzione di quanto valga la pena di perseverare nell'impari lotta - si veda al proposito "Il Verme del Rafano è più felice di me" - tra chi si ostina a considerare i titoli di coda come parte integrante di un'opera e lo scempio imperante che (Netflix docet) vorrebbe dirottare la mente dello spettatore sul prodotto successivo già tre secondi dopo che hanno iniziato a espletare la loro preziosa funzione catartica.
La vicenda non è delle più originali. Si parla di amori tossici, maschi manipolatori, violenza psicologica, stalking, porn revenge: argomenti ampiamente presenti nel cinema e nella letteratura perché purtroppo direttamente derivati dalla cronaca recente. Quello che mi è parso più apprezzabile e coinvolgente, semmai, è il modo di trattarli: senza lasciare spazio agli stereotipi, alla retorica, all'ideologico manicheismo nella divisione delle colpe a cui, purtroppo, molto spesso assistiamo nell'attuale dibattito. Qui non si fanno sconti a nessuno, perché accanto al "cattivo" - un ventenne come tanti che molto banalmente disprezza il genere femminile - non c'è la consueta galleria di vittime e santini. La forza del film, anzi, è proprio quella di voler e saper descrivere - com'è sacrosanto e necessario, ma purtroppo anche terribilmente raro - quella profonda ambivalenza che colora inevitabilmente i rapporti sentimentali e familiari.
Se la quindicenne eponima è indubbiamente plagiata e mentalmente abusata, pertanto, la lucida brutalità del suo carnefice la (e ci) mette di fronte alle sue "corresponsabilità", cioè a quell’immensa zona grigia delle relazioni interpersonali che solitamente si preferisce proclamare tabù perché troppo dolorosa e complessa da sviscerare. E ancor più il discorso vale per quello che è il vero protagonista del film: suo padre. Non saprei dire quanto sia azzeccata la scelta di affidarne il ruolo a Edoardo Leo (per altro bravissimo come sempre, come del resto Milena Mancini, che non conoscevo e che interpreta la madre), ma quel che è certo è che l'unico episodio di reale violenza "fisica" in tutto il film è uno schiaffo che assesta proprio lui al fidanzato della figlia. Il quale, da ottimo rappresentante del “Male”, ne risveglia la terribile urgenza di doversi confrontare con i propri demoni interiori che inevitabilmente impregnano il loro rapporto. "Sei stato tu a chiamarla Mia!", gli ricorda nella scena forse più impietosa, quella che dovrebbe consentire a chi possiede la necessaria sensibilità di cogliere nella rabbia di un padre simbolicamente spodestato il riflesso di quell’identico desiderio di possesso e dominio che non può permettersi di riconoscere in se stesso.
È un topos psicoanalitico facilmente rintracciabile nel mito e nell’arte, del resto, quello della rabbia incontrollabile e distruttiva rivolta verso chi estrinseca un sentimento che il soggetto ha rimosso e ricacciato nell’inconscio in quanto inaccettabile. Nel cinema, per esempio, questo meccanismo di proiezione è messo in atto dal giurato n. 3 dello splendido “12 Angry Men” (La parola ai giurati) di Sidney Lumet. E forse non è un caso che il film si chiuda sfiorando l’argomento a sua volta delicatissimo – e per affrontare il quale non ne basterebbe un altro – di come il comportamento del singolo sia destinato ad essere interpretato e valutato nell’impersonale letto di Procuste della giustizia umana, il cui gelido ingranaggio evoca consonanza più con l’efferatezza del fidanzato che con il goffo (e penoso) struggimento del padre. Che chiude la sua disperata parabola in ginocchio, impietosamente ritratto in tutta la sua precaria fragilità.
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