Ci sono sequel che fanno rimpiangere l’originale, cioè il capitolo precedente, e poi c’è “Un altro piccolo favore“, che fa rimpiangere anche solo l’idea di averlo girato, figuriamoci visto.
Sette anni dopo il successo di “Un piccolo favore (2018)”, Paul Feig ci riprova con un secondo capitolo che vorrebbe imitare la spensieratezza del primo, ma finisce per inciampare su quasi tutti gli ostacoli classici dei sequel mal riusciti: trama forzata, umorismo fuori fuoco e cliché a pioggia.
Non aiuta che il film pretenda una memoria di ferro dallo spettatore, ignorando il fatto che, dopo quasi un decennio, qualche minuto di riassunto non è un lusso, bensì una necessità.
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Ci sono sequel che fanno rimpiangere l’originale, cioè il capitolo precedente, e poi c’è “Un altro piccolo favore“, che fa rimpiangere anche solo l’idea di averlo girato, figuriamoci visto.
Sette anni dopo il successo di “Un piccolo favore (2018)”, Paul Feig ci riprova con un secondo capitolo che vorrebbe imitare la spensieratezza del primo, ma finisce per inciampare su quasi tutti gli ostacoli classici dei sequel mal riusciti: trama forzata, umorismo fuori fuoco e cliché a pioggia.
Non aiuta che il film pretenda una memoria di ferro dallo spettatore, ignorando il fatto che, dopo quasi un decennio, qualche minuto di riassunto non è un lusso, bensì una necessità.
D’altronde non stiamo parlando di un classico immortale del quale ci si ricorda ogni fotogramma.
Peraltro guardare "Un altro piccolo favore" e urlare al trash è sinonimo di una comprensione parziale dell’operazione.
Il regista accentua ed esagera ciò che già c’era di accentuato ed esagerato nel primo film, operando probabilmente del tutto intenzionalmente.
Il film abusa di irritanti stereotipi sugli italiani, oltre a peccare di incoerenze narrative e una costante e ostentata volontà di andare sempre sopra le righe.
"Un altro piccolo favore" già lo sa di essere un inverosimile e perverso gioco tra melò e thriller, allora non gli resta che giocare.
Ambiguità, intrighi, trame e sotto trame vengono alimentati da una storia che non ha timore di osare.
Anche perché sa bene che il suo principale pubblico non potrà che essere il medesimo che ha trovato nel primo film un autentico S-cult, ripetendo e pompando se stesso, in attesa magari di un terzo ancora più scabroso, camp e volutamente sciocco capitolo.
Un sequel dunque pieno di scelte sbagliate, carico di cliché e poche cose da dire rispetto al suo predecessore.
La Kendrick tiene a galla il progetto, ma non può salvarlo.
E così, tra battute stanche, location sprecate e personaggi ridotti a figurine, lo aggiungiamo alla lista di passi falsi e pellicole di cui, tutto sommato, potevamo farne tranquillamente a meno.
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