loredana giovanna
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martedì 29 luglio 2025
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schifoso
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ralphscott
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mercoledì 28 maggio 2025
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curiosit? da togliermi.
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Non amo la scrittura cruda di certi esponenti di spicco della beat generation, ma allo stesso tempo ero incuriosito da questo nuovo lavoro di Guadagnino che, anche qua, privilegia l'estetica a discapito di una immediatezza più verosimile. L'opera è curiosa, ambiziosa con le sue metafore, indifferente - e si sapeva dai film precedenti - alla verità storica ed alla sua messa in scena. Il Messico che vediamo è pura fantasia. Attori efficaci, dove William ed Eugene paiono inseguirsi, ma nella fissità di un club non luogo. Ancor più straniante è la rossa, enigmatica amica del giovane fluido. Ormai, tra i principali registi italiani vendibili oltre i confini pare prevalere la cura della forma, sovente documentaristica, eclatante, su quella dei dialoghi, accessorio criptico quasi di intralcio.
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tiz
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venerdì 23 maggio 2025
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coraggioso
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Guadagnino ? autore ormai mondiale. La paura di cadere non lo spaventa. E in questo film cade nell'abisso del suo inconscio. Diseguale, doloroso, coraggioso.
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no_data
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sabato 10 maggio 2025
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non convince
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Non si può dire che sia brutto film anzi. .. ma non appare convincente. Alcune scene intense ed esteticamente belle e Daniel Craig molto bravo.
Film, come spesso accade nel cinema di Guadagnino, ambizioso e confuso...vuole dire troppo e si perde.
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fulvio wetzl
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giovedì 1 maggio 2025
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false piste nella foresta dell''inconscio
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Giovanni Wetzl, Mio Figlio: Hai visto Queer?
Fulvio Wetzl: Ho visto Queer giovedì il giorno della prima, e lo giudico un assoluto capolavoro. Sono rimasto turbato per giorni, per notti.
Giovanni Wetzl: A me non piaciuto.Visto due volte
Fulvio Wetzl: So della tua avversione per Guadagnino, questa volta mi è sembrato molto sincero e sofferto quindi mi è piaciuto.
Giovanni Wetzl: A me no
Trovo che il suo film con il tema più sentito sia "Call me by your name"
Questo lo vedo più come un esercizio di stile scriteriato
Ho apprezzato qualche scena più “semplice”
Tipo la prima scena di sesso tra Lee e Allerton
O il piano sequenza con lui che si fa di eroina
Infatti "Call me by your name" è un film che mi ha fatto soffrire
Perché parla di una situazione veramente reale e che tantissimi hanno vissuto
Ho apprezzato anche la scelta dei pezzi dei Verdena nella colonna sonora
Abbastanza geniale
Su Queer
Fulvio Wetzl: Io penso esattamente il contrario.
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Giovanni Wetzl, Mio Figlio: Hai visto Queer?
Fulvio Wetzl: Ho visto Queer giovedì il giorno della prima, e lo giudico un assoluto capolavoro. Sono rimasto turbato per giorni, per notti.
Giovanni Wetzl: A me non piaciuto.Visto due volte
Fulvio Wetzl: So della tua avversione per Guadagnino, questa volta mi è sembrato molto sincero e sofferto quindi mi è piaciuto.
Giovanni Wetzl: A me no
Trovo che il suo film con il tema più sentito sia "Call me by your name"
Questo lo vedo più come un esercizio di stile scriteriato
Ho apprezzato qualche scena più “semplice”
Tipo la prima scena di sesso tra Lee e Allerton
O il piano sequenza con lui che si fa di eroina
Infatti "Call me by your name" è un film che mi ha fatto soffrire
Perché parla di una situazione veramente reale e che tantissimi hanno vissuto
Ho apprezzato anche la scelta dei pezzi dei Verdena nella colonna sonora
Abbastanza geniale
Su Queer
Fulvio Wetzl: Io penso esattamente il contrario. "Chiamami con il tuo nome" è un esercizio di stile, elegiaco, ma scritto da Ivory, quindi esteticamente pregnante ma essenzialmente gradevole. Qui lui sulla scorta di un romanzo che lo ha traumatizzato fin da bambino, è riuscito ad andare "nel buco del culo del mondo" raggiungendo e superando i livelli lisergici di "More" dei Pink Floyd, "Stati di allucinazione" di Ken Russell e la sequenza nel cimitero di "Easy Rider"
Giovanni Wetzl: Io ti parlo di contenuto
"Call me by your name" è una storia dolorosissima
Proprio perché è lineare e semplice a me arriva di più
Queer è più sperimentale e sregolato e ciò lo ha reso ai miei occhi e cuore più freddo e confuso nei contenuti
Poi a livello di citazioni cinematografiche è sicuramente più ricco
Però non mi ha emozionato nel complesso, e non ho amato il finale
Il libro l’ho letto a 18 anni comunque
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francesco
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mercoledì 30 aprile 2025
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l?impossibilit? dell?amore e il fastidio dell?es
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Luca Guadagnino, artista mutaforma e tra i cineasti più coraggiosi della sua generazione, torna con Queer, un film che non si lascia amare facilmente, ma che come un corpo sudato nella notte ci resta addosso, lasciando tracce, odori, impressioni persistenti. Tratto dal romanzo postumo di William Burroughs, Queer è solo apparentemente un film sull’identità sessuale: è invece, più profondamente, una riflessione sulla solitudine dell’uomo moderno, sulla ricerca disperata di un senso attraverso l’altro, e sull’incapacità di amare quando l’amore diventa un’ossessione.
Il protagonista Lee, alter ego dello scrittore, è l’archetipo dell’expat disilluso, dell’uomo che fugge il proprio paese, la propria storia, ma non riesce a sfuggire al proprio vuoto interiore.
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Luca Guadagnino, artista mutaforma e tra i cineasti più coraggiosi della sua generazione, torna con Queer, un film che non si lascia amare facilmente, ma che come un corpo sudato nella notte ci resta addosso, lasciando tracce, odori, impressioni persistenti. Tratto dal romanzo postumo di William Burroughs, Queer è solo apparentemente un film sull’identità sessuale: è invece, più profondamente, una riflessione sulla solitudine dell’uomo moderno, sulla ricerca disperata di un senso attraverso l’altro, e sull’incapacità di amare quando l’amore diventa un’ossessione.
Il protagonista Lee, alter ego dello scrittore, è l’archetipo dell’expat disilluso, dell’uomo che fugge il proprio paese, la propria storia, ma non riesce a sfuggire al proprio vuoto interiore. Insegue giovani corpi e momenti di estasi, brevi come una dose di alcol o di droga. Quando incontra Eugene – bellissimo, sfuggente, impossibile – il desiderio si trasforma in dipendenza, e la dipendenza in condanna. Eugene non è solo un oggetto del desiderio, è un miraggio, una promessa di fusione mai mantenuta. È la grande bellezza che non si lascia afferrare.
La regia di Guadagnino è lenta, volutamente imperfetta, quasi disturbante. L’estetica glam è screziata da dettagli stonati: magliette rovinate, orli sporchi, denti imperfetti, insetti striscianti come la scolopendra che torna a più riprese sullo schermo. È un’estetica del fastidio, un’estetica del reale che si scontra con la bellezza desiderata, proprio come accade al protagonista. Lo spettatore sente sulla pelle quella sottile inquietudine che attraversa il film, e che si fa metafora del nostro tempo: un’epoca in cui tutto è disponibile, ma nulla è davvero raggiungibile.
La sezione amazzonica del film – con la ricerca della yagé e la fusione psichica tra Bill e Gene – si configura come un viaggio iniziatico, un tentativo di penetrare le barriere del sé. La telepatia tanto evocata è, in fondo, solo il sogno di poter comunicare, finalmente, davvero. Ma il sogno resta sogno, e come spesso accade nei film di Guadagnino, la soglia della trasformazione non viene attraversata. Rimane aperta, dolorosa, irraggiungibile. Il tempo dell’amore non coincide mai con quello dell’altro.
Come in un film di Lynch o Cronenberg, la realtà scivola verso il simbolico, il perturbante. Ma non c’è mai compiacimento. Guadagnino, come sempre, non cerca di piacere: cerca di dire. E lo fa con un linguaggio sempre nuovo, mai derivativo, che sfida lo spettatore anziché blandirlo. Queer non è un film comodo, né rassicurante. Ma è cinema autentico, vivo, che pulsa di verità e dolore.
Alla fine, Queer non è la storia di un amore queer. È la storia di un uomo – e forse di tutti noi – che non è mai riuscito a vivere pienamente, e che lascia dietro di sé solo la scia amara di ciò che poteva essere. Guadagnino ci ricorda, con la forza di un regista che non ha paura di essere scomodo, che il cinema può ancora essere un’esperienza. E che vale la pena attraversarla, anche se fa male.
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francesco
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mercoledì 30 aprile 2025
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l?impossibilit? dell?amore e il fastidio dell?esistenza
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Luca Guadagnino, artista mutaforma e tra i cineasti pi? coraggiosi della sua generazione, torna con Queer, un film che non si lascia amare facilmente, ma che come un corpo sudato nella notte ci resta addosso, lasciando tracce, odori, impressioni persistenti. Tratto dal romanzo postumo di William Burroughs, Queer ? solo apparentemente un film sull?identit? sessuale: ? invece, pi? profondamente, una riflessione sulla solitudine dell?uomo moderno, sulla ricerca disperata di un senso attraverso l?altro, e sull?incapacit? di amare quando l?amore diventa un?ossessione.
Il protagonista Lee, alter ego dello scrittore, ? l?archetipo dell?expat disilluso, dell?uomo che fugge il proprio paese, la propria storia, ma non riesce a sfuggire al proprio vuoto interiore.
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Luca Guadagnino, artista mutaforma e tra i cineasti pi? coraggiosi della sua generazione, torna con Queer, un film che non si lascia amare facilmente, ma che come un corpo sudato nella notte ci resta addosso, lasciando tracce, odori, impressioni persistenti. Tratto dal romanzo postumo di William Burroughs, Queer ? solo apparentemente un film sull?identit? sessuale: ? invece, pi? profondamente, una riflessione sulla solitudine dell?uomo moderno, sulla ricerca disperata di un senso attraverso l?altro, e sull?incapacit? di amare quando l?amore diventa un?ossessione.
Il protagonista Lee, alter ego dello scrittore, ? l?archetipo dell?expat disilluso, dell?uomo che fugge il proprio paese, la propria storia, ma non riesce a sfuggire al proprio vuoto interiore. Insegue giovani corpi e momenti di estasi, brevi come una dose di alcol o di droga. Quando incontra Eugene ? bellissimo, sfuggente, impossibile ? il desiderio si trasforma in dipendenza, e la dipendenza in condanna. Eugene non ? solo un oggetto del desiderio, ? un miraggio, una promessa di fusione mai mantenuta. ? la grande bellezza che non si lascia afferrare.
La regia di Guadagnino ? lenta, volutamente imperfetta, quasi disturbante. L?estetica glam ? screziata da dettagli stonati: magliette rovinate, orli sporchi, denti imperfetti, insetti striscianti come la scolopendra che torna a pi? riprese sullo schermo. ? un?estetica del fastidio, un?estetica del reale che si scontra con la bellezza desiderata, proprio come accade al protagonista. Lo spettatore sente sulla pelle quella sottile inquietudine che attraversa il film, e che si fa metafora del nostro tempo: un?epoca in cui tutto ? disponibile, ma nulla ? davvero raggiungibile.
La sezione amazzonica del film ? con la ricerca della yag? e la fusione psichica tra Bill e Gene ? si configura come un viaggio iniziatico, un tentativo di penetrare le barriere del s?. La telepatia tanto evocata ?, in fondo, solo il sogno di poter comunicare, finalmente, davvero. Ma il sogno resta sogno, e come spesso accade nei film di Guadagnino, la soglia della trasformazione non viene attraversata. Rimane aperta, dolorosa, irraggiungibile. Il tempo dell?amore non coincide mai con quello dell?altro.
Come in un film di Lynch o Cronenberg, la realt? scivola verso il simbolico, il perturbante. Ma non c?? mai compiacimento. Guadagnino, come sempre, non cerca di piacere: cerca di dire. E lo fa con un linguaggio sempre nuovo, mai derivativo, che sfida lo spettatore anzich? blandirlo. Queer non ? un film comodo, n? rassicurante. Ma ? cinema autentico, vivo, che pulsa di verit? e dolore.
Alla fine, Queer non ? la storia di un amore queer. ? la storia di un uomo ? e forse di tutti noi ? che non ? mai riuscito a vivere pienamente, e che lascia dietro di s? solo la scia amara di ci? che poteva essere. Guadagnino ci ricorda, con la forza di un regista che non ha paura di essere scomodo, che il cinema pu? ancora essere un?esperienza. E che vale la pena attraversarla, anche se fa male.
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johnny1988
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domenica 27 aprile 2025
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morte a citt? del messico
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William Lee è un uomo di mezza età statunitense, fuggito in Città del Messico dopo un blitz dell’antidroga. Qui l’uomo si rifà una vita, come diversi altri omosessuali fuggiti dal clima repressivo americano (siamo all’inizio degli anni ’50) e tra i fumi dell’alcol e degli psichedelici, vagabonda come una mosca da bar alla ricerca oziosa di “divertimento”. Finché non lo catalizza l’ingresso in scena del giovane Eugene Allerton (Drew Starkey), da poco uscito dalla leva militare. Evidentemente, Lee non ha armi sufficienti per sedurre il ragazzo, tuttavia si abbassa a qualsiasi stratagemma pur di elemosinare la sua compagnia e le sue attenzioni.
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William Lee è un uomo di mezza età statunitense, fuggito in Città del Messico dopo un blitz dell’antidroga. Qui l’uomo si rifà una vita, come diversi altri omosessuali fuggiti dal clima repressivo americano (siamo all’inizio degli anni ’50) e tra i fumi dell’alcol e degli psichedelici, vagabonda come una mosca da bar alla ricerca oziosa di “divertimento”. Finché non lo catalizza l’ingresso in scena del giovane Eugene Allerton (Drew Starkey), da poco uscito dalla leva militare. Evidentemente, Lee non ha armi sufficienti per sedurre il ragazzo, tuttavia si abbassa a qualsiasi stratagemma pur di elemosinare la sua compagnia e le sue attenzioni. La relazione, dapprima impacciata, esplode in un gioco carnale, ma deflagra in una frequentazione servile e infine tossica, in cui potere e capriccio si alternano ponendo sempre Lee in una posizione di svantaggio rispetto al comportamento evasivo e intollerante dell’altro. Lee le prova tutte, con l’alcol, con le sostanze, ma finisce solo per farsi assistere come un paziente malato, con sporadica, se non eccezionale, premura da parte di Allerton. Fino addirittura a convincere lo studente ad attraversare insieme a lui l’Amazzonia per sperimentare lo jagué, una radice psichedelica usata nei rituali sciamanici che stimolerebbe, così dice l’uomo, abilità telepatiche. Quando invece tutti sanno, protagonisti inclusi, anche se non se lo dicono, che l’intenzione di Lee è capire quali sentimenti muove la sua controparte e di possederla, in qualche modo.
Le premesse non danno spazio a un finale conciliante, ma non occorre risparmiare questa informazione al pubblico. La direzione della storia è già tracciata fin dal suo esordio.
Luca Guadagnino, dopo trent’anni dichiarati di attesa, trascrive insieme a Justin Kuritzkes il racconto tormentato omonimo di William Burroughs, una serie incompleta di appunti autobiografici inediti fino agli anni ‘80, quando il regista palermitano, allora diciassettenne, si ritrovò catturato dentro quelle pagine.
È impossibile non includere subito Queer a una realtà letteraria e cinematografica di lunga tradizione. D’altronde l’amore fatale è un sentimento universale, che affonda nella psiche umana e trova un bacino di rappresentazione in tutte le epoche. Abbiamo una lunghissima lista che precede Burroughs e alla quale è molto probabile che l’autore abbia attinto, forse anche inconsciamente. Prima di tutti Morte a Venezia di Thomas Mann, in cui spiccano, probabilmente più di ogni altro esempio letterario del Novecento, il tema di Eros e Thanatos, della divinizzazione morbosa dell’oggetto del desiderio e dell’afflizione. Ma non solo, abbiamo altri illustri esempi, da Il Talento di Mr. Ripley, La strada Scarlatta, I dolori del giovane Werther, Madame Bovary, Cime Tempestose, il Cyrano de Bergerac. Il cinema, inoltre, in particolare il noir, dà corpo e immagine alla femme fatale (un esempio può trovare la sua acme drammatica in Fatal Attraction con Glenn Close e Michael Douglas).
E per esteso, all’homme fatale.
Si pensi solo a Querelle, My Own Private Idaho, Beau Travail, All About Lily Chou-Chou, La Pianista, Les Amour Imaginaires.
In tutta la filmografia di Guadagnino sobbolle una vasta preparazione umanistica e letteraria.
È palese nel suo stile iconografico, nella composizione della fotografia e delle inquadrature (le citazioni a Fassbinder, a Storaro, a Coppola si sprecano). E risalta nel suo cinema ancora una volta l’amore impossibile, un tema, forse proprio per la sua trasversalità, che gli ha dato fortuna oltreoceano, quello interrotto, disperato.
I due protagonisti di Queer non sono altro che l’ultima, ma sempre attuale, manifestazione degli esseri umani come predatori e prede dell’Eros.E in una certa maniera, Guadagnino è bravissimo a raccontare le tappe consequenziali dei rapporti affettivi – già lo avevamo visto in Call me by your Name da cui eredita anche la grafica.
Eppure, al di là delle immagini, così ben realizzate, la ricostruzione incredibile negli studi di Roma di Città del Messico, dell’interpretazione sentita di entrambi gli attori, che si spogliano (anche letteralmente) di tutto il virilismo con cui vengono pubblicizzati dallo star system, il film non sonda a sufficienza le psicologie dei suoi personaggi, azzerando infelicemente l’immedesimazione. E non riesce a scostarsi del tutto da scelte che appaiono, in fondo, manieristiche. Non mancano infatti le simmetrie semantiche fra l’Eros e l’eroina. Così come si ripresentano, secondo una logica trita e ritrita, i giochi mitologici di contrasto fra il sublime sirenico – pulito, liscio e “scivoloso” - e il bestiale – ruvido, scabro e lascivo. Guadagnino non gioca certo di sottrazione, aggiunge infatti sovraimpressioni che raccontano i desideri inespressi; inserisce spunti di realismo magico e accenni al surrealismo notturno caro a David Lynch; fino all’erotismo pelvico, al simbolismo camp (il ciondolo a forma del millepiedi, detrivoro che vive nel buio e nell’immondizia, è una denuncia aperta della personalità liminale di Allerton), l’utilizzo della macchina fotografica come mezzo di congelamento della bellezza, ma inanimata. Persino la danza, tanto cara al Teatro Fisico quanto al pubblico LGBTQIA+, assume una forte centralità – vedi la scena del trip allucinogeno in cui i fisici bronzei di Daniel Craig e Drew Starkey si compenetrano, grazie al contributo di una CGI sottilmente elaborata.
In questa vicenda decadente non è del tutto chiara, però, la posizione che assume lo stesso Guadagnino. Se ne vuole assumere una, e quanto ci sia di suo. Se la sua sia solo la volontà di mostrare voyeuristicamente corpi e anime che si corrompono a vicenda o se ci sia sotto una partecipazione emotiva e morale alla mostruosità del protagonista. Una deformità, quella di William, che si potrebbe giustificare in un bisogno umano di amore, ma che si macchia delittuosamente di narcisismo e manipolazione.
Difatti, per quanto possa sembrare Allerton il personaggio ritratto come quello mercuriale e opportunista, non è questi a intrappolare il suo “Oscar Wilde”, non si concede su transazione (checché abbiamo malinteso i recensori e buona parte degli spettatori), ma attraversa faticosamente a sua volta un’iniziazione identitaria e accetta passivamente, suo malgrado, un ruolo accudente. Finché non comprende definitivamente, senza bisogno di verbalizzarlo, in simmetrico contrasto con il suo “protettore”, di essere lui il soggetto manipolato e a “rischio”.
Non può e non dovrebbe esserci scusa, in questo senso, per il Single Man di Queer, che, a differenza del suo analogo di Tom Ford, si insozza l’anima – il film ce lo mostra con costanza in abiti lisi, imbibito di sudore e alcol, sudiciume – per il suo, diciamolo!, laido obiettivo. E non può che esserci comprensione per il giovane Allerton, destinato anche lui forse a seguirne le orme, che è cosciente della tossicità di Lee, sebbene non faccia nessuno sforzo per apparire simpatico agli occhi del pubblico.
Forse sta in questo il vero aspetto degno di nota nel film di Guadagnino, ovvero di come il regista ridiscute con tono antifrastico il castigo di un anti-eroe corrotto nello spirito. Ma è difficile trovare altri spunti “straordinari”, nel senso stretto del termine, di riflessione.
Notevole il riutilizzo anacronistico del grunge dei Nirvana e il post-punk dei New Order da parte della coppia Trent Reznor - Atticus Ross (qui per la terza volta di fianco al regista), che per quanto “ruffiani“, ereditano le atmosfere e i testi della beat generation e risuonano con estrema efficacia fra le ombre e le luci delle passeggiate nottambule di William.
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rosa.marzolini@gmail.com
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sabato 26 aprile 2025
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imperfetto ma stimolante
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Guadagnino con coraggio appassionato si getta in una biografia di complessità estrema. Ci trascina in un mondo fatto di suggestioni sonore e visive, con citazioni pittoriche azzeccate e stimolanti. Ci affascina grazie ad interpretazioni attoriali di molto generose e ad un'uso dell'immagine costantemente spiazzante. Non giudicherei la perfezione del film, ma la possibilità di entrare in una forma linguistica sperimentale. Ho goduto questa visione, proprio perché molto impegnativa per lo spettatore.
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paolorol
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giovedì 24 aprile 2025
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anestesia
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Non ho letto il romanzo di Burroghs e non riesco a capire se e quanto Guadagnino sia stato aderente all'originale. La trasposizione filmica è comunque più che convincente, anche se estetizzante e caratterizzata da sin troppa eleganza e raffinatezza, grazie ad una fotografia splendida ed iper curata e ad una sceneggiatura essenziale. Come in Chiamami con il tuo nome Guadagnino appare concentrato sulla descrizione di un micro mondo personale che resta quasi avulso dalla realtà storica e sociale Una storia di amore difficile, se non impossibile, per ostacoli e limiti derivati da condizioni psicologiche individuali. In primo piano il dolore e la disperazione di un uomo che cerca con ogni mezzo di anestetizzarsi.
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Non ho letto il romanzo di Burroghs e non riesco a capire se e quanto Guadagnino sia stato aderente all'originale. La trasposizione filmica è comunque più che convincente, anche se estetizzante e caratterizzata da sin troppa eleganza e raffinatezza, grazie ad una fotografia splendida ed iper curata e ad una sceneggiatura essenziale. Come in Chiamami con il tuo nome Guadagnino appare concentrato sulla descrizione di un micro mondo personale che resta quasi avulso dalla realtà storica e sociale Una storia di amore difficile, se non impossibile, per ostacoli e limiti derivati da condizioni psicologiche individuali. In primo piano il dolore e la disperazione di un uomo che cerca con ogni mezzo di anestetizzarsi. Nei panni del protagonista Craig offre un'ottima interpretazione e dimostra, una volta per tutte, di essere un vero attore e non soltanto la maschera di Bond.
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