no_data
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lunedì 8 ottobre 2018
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bellissimo
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protagonista bravissimo, bello il messaggio
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domenicosaracino
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lunedì 8 ottobre 2018
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un'ode ai custodi del tempo che fu
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì. Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni.
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì. Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni. Li lasciano, questi tesori, per quelli che restano. Perché se ne facciano carico e li consegnino a chi segue, perché non si disperdano nel fluire insensato. Perché attraverso quelle tracce tutti i dolori, le gioie, i sogni, le aspirazioni, gli amori che in quei luoghi sono sbocciati e fioriti, tutto ciò insomma che ci fa umani e non bestie, o macchine, possano continuare ad essere. E allora qualcuno deve rimanere ad ascoltarli questi fantasmi. Il cinema, meglio di tutti, lo sa. Il complesso della mummia, lo chiamava Bazin, che il cinema lo conosceva bene e lo amava davvero. Io posso capirlo Elia, questo Sergio Rubini dal volto segnato dai ricordi, come quello dei vecchi, con quello sguardo di chi cerca, rabdomante di tempo perduto. Abbiamo sentito le stesse voci. Le voci nel tempo, direbbe Piavoli, quelle rimaste disperatamente appiccicate ai vestiti negli armadi polverosi, alle cose, alle pareti, alle piazze, ai giardini, che hanno visto e sentito tutto ciò che abbiamo fatto, che sanno di noi il bene e il male. Ci sono stato, lì. Ci siamo stati tutti, almeno una volta, nelle stanze del tempo. Provvidenza, questo paese inventato che però esiste davvero, queste quattro case belle in cui Elia si ostina a vivere, è questo e tanto altro ancora. Lo sa Elia e lo sanno Pippo Mezzapesa e Antonella Gaeta, che proprio di questo volevano parlare ne Il bene mio, ritorno al cinema di un regista che ha tanto, tanto da dire, assieme alla sceneggiatrice che lo accompagna da sempre. Entrambi, del resto, scrissero Zinanà, corto che valse loro il David di Donatello. Qualcuno scrisse che quel piccolo, prezioso frammento filmico, in cui un suonatore di piatti sogna di fare la sua parte nella banda di paese senza mai azzeccare l’attacco giusto, era un elogio del non andare a tempo. A me piace pensare che quel suonatore lì, il tempo lo conoscesse bene, meglio degli altri. È che era suo, e di nessun altro. Come le marce funebri di Pinuccio Lovero, le cassanate di Fantantonio, i balli lenti di chi si ama e se ne frega che non ci sia nessuno a guardarli. Nella galleria dei personaggi di Pippo e Antonella c’è posto per tutti quelli che i tempi li dettano loro, per quelle splendide anomalie che sono resistenza all’uniformazione, alla falsificazione, ai simulacri, al plasticume. Chiaro che non sono soli. Assieme a loro ci son tanti altri figli di un Sud, di una Italia che è patria a volte dimentica delle forze del passato, tanto care a Pasolini. Un esercito di Elia che non vogliono proprio dimenticare, un mondo che non se ne parla di scordarsi di sè. Sarebbero troppi i nomi, per farne, con rispetto, una lista esauriente. Gente che non ha mai smesso di emozionarsi davanti alle bande, ai fuochi d’artificio modesti, senza pretese, che i soldi son pochi. Cinema della frugalità opposta allo sfarzo, cinema contadino che si fa beffe del virtuale, del 2.0, della liquidità. Che a questo si oppone, pur non rinnegandolo. Cinema della dignità, della pietra e della terra, degli oggetti consumati a furia di usarli. Ed Elia, e quelli che ne cantano l’ode – perchè Il bene mio questo è, un’ode, un canto lirico o una favola, se volete – di questo mondo che rischia di scomparire sono i custodi.
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domenica 7 ottobre 2018
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un'ode ai custodi del tempo che fu
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì.
Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni. Li lasciano, questi tesori, per quelli che restano.
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Io ad Apice vecchia ci sono stato. Ho visto le insegne sbiadite, le case scorticate, i disegni dei bambini coi colori ingialliti, coi nomi dietro e le margherite più grandi di un portone, le pratiche edili coi progetti di chi non sapeva ancora. Che il 23 novembre 1980 la terra avrebbe tremato, e non ci sarebbe stato più tempo, più modo, di farli, quei progettiempo, più modo, di farli, quei progetti lì.
Tra i vicoli invasi dalle erbacce, padrone dei luoghi senza più operosità, liberati dai rumori di chi visse, mi è parso di sentire le voci di chi li percorse, di chi li animò. Perché le anime lasciano tracce, lasciano odori, lasciano segni. Li lasciano, questi tesori, per quelli che restano. Perché se ne facciano carico e li consegnino a chi segue, perché non si disperdano nel fluire insensato. Perché attraverso quelle tracce tutti i dolori, le gioie, i sogni, le aspirazioni, gli amori che in quei luoghi sono sbocciati e fioriti, tutto ciò insomma che ci fa umani e non bestie, o macchine, possano continuare ad essere. E allora qualcuno deve rimanere ad ascoltarli questi fantasmi. Il cinema, meglio di tutti, lo sa. Il complesso della mummia, lo chiamava Bazin, che il cinema lo conosceva bene e lo amava davvero.
Io posso capirlo Elia, questo Sergio Rubini dal volto segnato dai ricordi, come quello dei vecchi, con quello sguardo di chi cerca, rabdomante di tempo perduto. Abbiamo sentito le stesse voci. Le voci nel tempo, direbbe Piavoli, quelle rimaste disperatamente appiccicate ai vestiti negli armadi polverosi, alle cose, alle pareti, alle piazze, ai giardini, che hanno visto e sentito tutto ciò che abbiamo fatto, che sanno di noi il bene e il male. Ci sono stato, lì. Ci siamo stati tutti, almeno una volta, nelle stanze del tempo.
Provvidenza, questo paese inventato che però esiste davvero, queste quattro case belle in cui Elia si ostina a vivere, è questo e tanto altro ancora. Lo sa Elia e lo sanno Pippo Mezzapesa e Antonella Gaeta, che proprio di questo volevano parlare ne Il bene mio, ritorno al cinema di un regista che ha tanto, tanto da dire, assieme alla sceneggiatrice che lo accompagna da sempre. Entrambi, del resto, scrissero Zinanà, corto che valse loro il David di Donatello. Qualcuno scrisse che quel piccolo, prezioso frammento filmico, in cui un suonatore di piatti sogna di fare la sua parte nella banda di paese senza mai azzeccare l’attacco giusto, era un elogio del non andare a tempo. A me piace pensare che quel suonatore lì, il tempo lo conoscesse bene, meglio degli altri. È che era suo, e di nessun altro. Come le marce funebri di Pinuccio Lovero, le cassanate di Fantantonio, i balli lenti di chi si ama e se ne frega che non ci sia nessuno a guardarli. Nella galleria dei personaggi di Pippo e Antonella c’è posto per tutti quelli che i tempi li dettano loro, per quelle splendide anomalie che sono resistenza all’uniformazione, alla falsificazione, ai simulacri, al plasticume.
Chiaro che non sono soli. Assieme a loro ci son tanti altri figli di un Sud, di una Italia che è patria a volte dimentica delle forze del passato, tanto care a Pasolini. Un esercito di Elia che non vogliono proprio dimenticare, un mondo che non se ne parla di scordarsi di sè. Sarebbero troppi i nomi, per farne, con rispetto, una lista esauriente. Gente che non ha mai smesso di emozionarsi davanti alle bande, ai fuochi d’artificio modesti, senza pretese, che i soldi son pochi. Cinema della frugalità opposta allo sfarzo, cinema contadino che si fa beffe del virtuale, del 2.0, della liquidità. Che a questo si oppone, pur non rinnegandolo. Cinema della dignità, della pietra e della terra, degli oggetti consumati a furia di usarli.
Ed Elia, e quelli che ne cantano l’ode – perchè Il bene mio questo è, un’ode, un canto lirico o una favola, se volete – di questo mondo che rischia di scomparire sono i custodi. Custodi che non se ne vanno, come Tommaso Cestrone, l’angelo di Carditello cui uno dei luogotenenti dell’esercito di questo cinema di resistenza, Pietro Marcello, dedicava quel capolavoro poetico che è Bella e perduta.
Bella e perduta, appunto. Provvidenza come Apice, la cultura, l’amore che fu. Gli altri se ne fottono dei morti, dei fantasmi, delle voci. Delle case, delle regge, delle scuole crollate. Vogliono dimenticare, vogliono andare avanti, dicono. Dove non lo sanno bene neanche loro, barche contro corrente, in balia dei flutti, come nella indescrivibile scena finale di Roma di Cuaron, per chi scrive la vetta indiscussa di questa ricchissima 75esima Mostra del cinema. Forse qualcuno, magari Elia, o Cleo, o un Cristo qualunque, farà ancora in tempo a salvarci.
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valterchiappa
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domenica 7 ottobre 2018
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la necessità della memoria
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La nostra vita è racchiusa in mille oggetti, semplici cose deperibili: un vecchio giocattolo, il disegno di un bambino, l’insegna di un negozio. La loro fragilità e l’evanescenza della memoria procedono di pari passo e, come vento sulla polvere o risacca sulla sabbia, cancellano le orme del nostro passaggio. La custodia è necessaria. Già Orhan Pamuk aveva trattato il tema, scrivendo e costruendo “Il museo dell’innocenza”. Ma se lo scrittore turco legava la conservazione al bisogno di solidificare di un vissuto personale, il giovane Pippo Mezzapesa ne fa una questione sociale, ambientando “Il bene mio” in un paese, là dove l’identità del singolo e quella collettiva sono inscindibili, rendendo così unica la vitale esigenza del loro mantenimento.
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La nostra vita è racchiusa in mille oggetti, semplici cose deperibili: un vecchio giocattolo, il disegno di un bambino, l’insegna di un negozio. La loro fragilità e l’evanescenza della memoria procedono di pari passo e, come vento sulla polvere o risacca sulla sabbia, cancellano le orme del nostro passaggio. La custodia è necessaria. Già Orhan Pamuk aveva trattato il tema, scrivendo e costruendo “Il museo dell’innocenza”. Ma se lo scrittore turco legava la conservazione al bisogno di solidificare di un vissuto personale, il giovane Pippo Mezzapesa ne fa una questione sociale, ambientando “Il bene mio” in un paese, là dove l’identità del singolo e quella collettiva sono inscindibili, rendendo così unica la vitale esigenza del loro mantenimento.Dopo un disastroso terremoto, l’immaginaria cittadina di Provvidenza è stata abbandonata. Il solo Elia (Sergio Rubini) si ostina a restare, legato al ricordo della moglie morta e alle vecchie immagini del suo paese, che sostituisce alla realtà diroccata. A nulla valgono i tentativi di condurlo via dell’amico Gesualdo (Dino Abbrescia) e di Rita (Teresa Saponangelo), la donna che gli porta la spesa e gli offre il suo affetto; ancor meno quelli del sindaco, che lo vorrebbe estirpare con la forza dalle sue case. E neppure l’incontro con una profuga nordafricana (Sonya Mellah), rifugiatasi fra le rovine del borgo, per cui sembra nascere un sentimento. Elia, testardo, resta lì, quando anche gli animali abbandonano Provvidenza, preso da una febbrile quanto misteriosa attività, da una missione il cui senso si svelerà nel finale.
Pippo Mezzapesa realizza un’opera necessaria nell’epoca dell’effimero. Lo fa utilizzando appropriatamente gli strumenti a sua disposizione: la forte valenza simbolico del suo personaggio principale, la prevedibile bravura di Sergio Rubini, che domina la scena, lasciando però briciole ai suoi comprimari, il coinvolgimento della musica, in particolare quella della tradizione popolare. Ma lo fa soprattutto con una sentita e palpabile partecipazione personale, che accende fiaccole di emotività nell’andamento monocorde della storia, così come il calore umano di Elia riscalda il gelo dei suoi ruderi e che, alfine, esplode nello struggente finale.
Il problema è che il messaggio, che si svela a pieno solo nell’epilogo, sembra essere tutto ciò che il regista bitontino aveva da raccontare. Quegli ultimi minuti di girato diventano l’unico fine dell’opera di Mezzapesa, il traguardo verso cui far giungere una vicenda che risulta svuotata di importanza e che procede con scene oltremodo dilatate e talora senza sbocchi (come l’artificio iniziale del ghost movie), fino a raggiungere faticosamente il minutaggio, peraltro ridotto, di 94 minuti.
Sul valore artistico di “Il bene mio”, comunque non trascurabile, finisce per prevalere l’importanza di quel messaggio. Che è drammaticamente attuale in una società che, al di là dei terremoti, tende a desertificare i contesti – paesi ma anche centri storici - dove si annidano ancora gli ultimi residui di umanità (e come non sentir riecheggiare la voce sempre troppo poco ascoltata di Pier Paolo Pasolini?). Ma che ci ricorda anche un intimo bisogno, eterno ed universale: quello, nonostante tutto, di sopravvivere.
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giusy
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sabato 6 ottobre 2018
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un film che ti colpisce al cuore
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Un film da non perdere ricco di emozioni e di speranza, mi sono commossa! Il bene mio è il bene nostro e va preservato con la cura e l'amore che ha il protagonista del film, Elia, nei confronti di ciò che rimane, quei ricordi da cui poter ripartire per costruire il futuro, quei ricordi che non vanno cancellati ma mantenuti in vita per rendere la ferita meno dolorosa. Con un Sergio rubini straordinario. Ve lo consiglio!
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joy2000
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venerdì 5 ottobre 2018
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l'ultimo uomo sulla terra
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Tante emozioni che ti attraversano. Film fatto di una strana, bellissima dolcezza.
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franci
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venerdì 5 ottobre 2018
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da non perdere
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Appena visto, da tempo non vedevo un film così bello, un film che suscita forti emozioni, un film che fa riflettere sull'importanza della memoria, un film di cui c'era bisogno. Andatelo a vedere!
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alinamalnima
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venerdì 5 ottobre 2018
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il bene nostro ❤️
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Io non lo so cosa significa perdere tutto. Non lo so cosa puó significare non avere più nulla, che sei lì che hai perso tutto quello che avevi e ti rimane soltanto un futuro che non riesci a intravedere e forse nemmeno ti interessa più.
Elia ha perso tutto, non ha praticamente più niente ma in quel niente riesce a vedere i contorni di tutto quello che aveva.
Elia amava così tanto quello che aveva che decide di rimanere a fare la guardia, riuscendo ad andare avanti senza dimenticare niente, ma nemmeno per un solo secondo.
"Il bene mio" prende il tempo e lo sospende in un presente che racconta che bisogna riappropriarsi della preziosità del passato e che racconta che non c'è nulla di più importante della resistenza e della comunità che non perde la memoria ma la accoglie.
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Io non lo so cosa significa perdere tutto. Non lo so cosa puó significare non avere più nulla, che sei lì che hai perso tutto quello che avevi e ti rimane soltanto un futuro che non riesci a intravedere e forse nemmeno ti interessa più.
Elia ha perso tutto, non ha praticamente più niente ma in quel niente riesce a vedere i contorni di tutto quello che aveva.
Elia amava così tanto quello che aveva che decide di rimanere a fare la guardia, riuscendo ad andare avanti senza dimenticare niente, ma nemmeno per un solo secondo.
"Il bene mio" prende il tempo e lo sospende in un presente che racconta che bisogna riappropriarsi della preziosità del passato e che racconta che non c'è nulla di più importante della resistenza e della comunità che non perde la memoria ma la accoglie.
"Il bene mio" racconta tutto quello che dovremmo fare per il bene nostro.
Andate al cinema. Fatelo per voi
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venerdì 5 ottobre 2018
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il bene nostro
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Io non lo so cosa significa perdere tutto. Non lo so cosa puó significare non avere più nulla, che sei lì che hai perso tutto quello che avevi e ti rimane soltanto un futuro che non riesci a intravedere e forse nemmeno ti interessa più. Elia ha perso tutto, non ha praticamente più niente ma in quel niente riesce a vedere i contorni di tutto quello che aveva. Elia amava così tanto quello che aveva che decide di rimanere a fare la guardia, riuscendo ad andare avanti senza dimenticare niente, ma nemmeno per un solo secondo. "Il bene mio" prende il tempo e lo sospende in un presente che racconta che bisogna riappropriarsi della preziosità del passato e che racconta che non c'è nulla di più importante della resistenza e della comunità che non perde la memoria ma la accoglie.
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Io non lo so cosa significa perdere tutto. Non lo so cosa puó significare non avere più nulla, che sei lì che hai perso tutto quello che avevi e ti rimane soltanto un futuro che non riesci a intravedere e forse nemmeno ti interessa più. Elia ha perso tutto, non ha praticamente più niente ma in quel niente riesce a vedere i contorni di tutto quello che aveva. Elia amava così tanto quello che aveva che decide di rimanere a fare la guardia, riuscendo ad andare avanti senza dimenticare niente, ma nemmeno per un solo secondo. "Il bene mio" prende il tempo e lo sospende in un presente che racconta che bisogna riappropriarsi della preziosità del passato e che racconta che non c'è nulla di più importante della resistenza e della comunità che non perde la memoria ma la accoglie. "Il bene mio" racconta tutto quello che dovremmo fare per il bene nostro. Andate al cinema. Fatelo per voi.
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antonia79
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venerdì 5 ottobre 2018
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poetico e commovente
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Un film poetico ed emozionante con un Sergio Rubini in una delle sue migliori interpretazioni, su un tema che in questo momento ci tocca tutti direttamente. Da vedere assolutamente!
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