zarar
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martedì 7 aprile 2015
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un mondo negato alla storia?
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Il regista mauritano-maliano Sissako ambienta il suo film a Timbuktu, nel Mali multietnico, al tempo della occupazione del paese da parte del gruppo islamista fondamentalista Ansar Dine nel 2012. Gli occupanti impongono nel paese la sharia nella forma più dura (pena capitale per gli adulteri; donne costrette a subire limitazioni nella loro libertà di movimento, di relazioni, di abbigliamento, costrette a matrimoni forzati; divieto per tutti del fumo, della musica, del calcio; religiosi islamici moderati impotenti di fronte ai fondamentalisti; flagellazioni per minime trasgressioni della legge coranica, fino a barbari supplizi quali l’interramento e la lapidazione.
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Il regista mauritano-maliano Sissako ambienta il suo film a Timbuktu, nel Mali multietnico, al tempo della occupazione del paese da parte del gruppo islamista fondamentalista Ansar Dine nel 2012. Gli occupanti impongono nel paese la sharia nella forma più dura (pena capitale per gli adulteri; donne costrette a subire limitazioni nella loro libertà di movimento, di relazioni, di abbigliamento, costrette a matrimoni forzati; divieto per tutti del fumo, della musica, del calcio; religiosi islamici moderati impotenti di fronte ai fondamentalisti; flagellazioni per minime trasgressioni della legge coranica, fino a barbari supplizi quali l’interramento e la lapidazione. Sono un gruppo eterogeneo, con elementi di paesi diversi costretti a volte – ironia - ad usare tra loro l’inglese per capirsi, uniti solo dall’ideologia fondamentalista. Attraverso la disgraziata vicenda di un pastore tuareg, Kidane, condannato a morte per aver ucciso non intenzionalmente un pescatore che gli ha ammazzato una mucca, il film ci introduce in un clima e in un sistema di rapporti difficile per noi da capire sino in fondo, anche se ormai l’ISIS è tragica cronaca quotidiana. Da una parte abbiamo un mondo arcaico affascinante di paesaggi immobili, ritualità di gesti e compiti quotidiani, antichi mestieri, parole misurate, affetti profondi anche se spesso inespressi, musica e canto nativi, innocente allegria; dall’altra la paura e l’orrore incarnati di un fondamentalismo deciso a imporre un Medioevo crudele e anacronistico. Sembrano agli antipodi, ma – anche se i fondamentalisti vengono dall’esterno, e neppure condividono la lingua dei locali, qualcosa nel fondo accomuna gli uni e gli altri: la stessa abissale lontananza da una visione laica e razionale dell’esistenza, lo stesso arcaico fatalismo, e ciò anche se la “modernità” occidentale offre loro i gadget e/o gli strumenti di morte più aggiornati (il telefonino satellitare, la motocicletta, i SUV, le divise mimetiche, i kalashnikov…). I fondamentalisti si sentono gli esecutori di una legge superiore e assoluta, la loro violenza è rigorosamente ritualizzata, condannano senza aggressività e senza passione personale; i perseguitati ne accettano la logica, nella percezione che il loro destino è segnato e voluto da Allah, e nulla e nessuno potrà cambiarlo. Di qui il fatalismo, l’acquiescenza, la disperazione muta, al massimo uno sfogo subito rientrato, o una fuga nella fantasia, come quella dei ragazzi nella bellissima scena in cui giocano con un pallone immaginario. Sissako rappresenta con ricchezza di sfumature questa situazione apparentemente senza scampo, simbolicamente espressa nella fuga inutile della gazzella inseguita dai cacciatori, nella corsa senza speranza della figlia di Kidane alla fine del film. Resta qualche dubbio sull’estetismo virtuosistico del regista, che sfuma e annega i passaggi più drammatici in atmosfere e paesaggi perfetti, che accentuano la connotazione mitica evocata dal solo nome di Timbuktu: le dune e le crete dorate nel sole, la notte di luna nel deserto, il cadavere nero del pescatore nell’acqua accanto alla cesta, quasi tratto di pennello in un acquarello cinese, le geometrie astratte dei vicoli, delle case, dei tetti, ma anche il volto scolpito, senza tempo della moglie di Kidane… Su questo sfondo estetizzante e anestetizzante la vicenda sembra collocarsi fuori del tempo. Un modo per dirci che questo mondo è negato alla storia? 3 1/2
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enrico danelli
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domenica 22 marzo 2015
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quando la realtà supera la finzione
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Questo film viene continuamente superato dalle notizie che ci arrivano dai territori occupati dagli integralisti. In confronto alle immagini tratte dalla realtà, facilmente reperibili sul web o su diversi network televisivi, questo film rimane indietro di parecchio, cioè su livelli meno drammatici e spettacolari. L'effetto denuncia è quindi ampiamente scontato e lo spettaore arriva già ben preparato per quello che gli toccherà vedere. Tuttavia l'analisi della situazione non è banale e aggiunge qualcosa di nuovo e di rassicurante per noi occidentali: il fanatismo integralista è spesso di facciata e nasconde esclusivamente una volontà di potere.
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Questo film viene continuamente superato dalle notizie che ci arrivano dai territori occupati dagli integralisti. In confronto alle immagini tratte dalla realtà, facilmente reperibili sul web o su diversi network televisivi, questo film rimane indietro di parecchio, cioè su livelli meno drammatici e spettacolari. L'effetto denuncia è quindi ampiamente scontato e lo spettaore arriva già ben preparato per quello che gli toccherà vedere. Tuttavia l'analisi della situazione non è banale e aggiunge qualcosa di nuovo e di rassicurante per noi occidentali: il fanatismo integralista è spesso di facciata e nasconde esclusivamente una volontà di potere. Uno dei capi integralisti viene scovato a fumare di nascosto dietro ad una duna come uno scolaretto nei bagni della scuola, un altro giovane combattente indottrinato a dovere non riesce a spiccicare una parola di propaganda davanti alla telecamera, rendendosi ben conto della vacuità delle idee inculcaltegli D'altro lato la popolazione non sopporta la rigidità e la assurdità delle regole imposte. Se questi sono gli integralisti islamici.potremmo quasi stare tranquilli. Il timore è che il film sia fin troppo ottimista e che la realtà sia ben diversa. Quindi, a parte alcune scene memorabili (la partita di calcio senza pallone o la fuga iniziale della gazzella, metafora della fuga finale della bambina, a sua volta metafora della fuga di intere popolazioni), il film risulta troppo delicato e consolatorio.
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[+] non è un film holliwoodiano, grazie a dio.
(di olrik)
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jacopo b98
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mercoledì 18 marzo 2015
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un film importante, riuscito e necessario
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A Timbuktu, nel cuore dell’Africa, si incrociano le vicende di numerose famiglie e personaggi, costrette a convivere con la brutalità dei terroristi jihadisti e la loro visione corrotta dell’Islam. Ma c’è anche chi ha il coraggio di resistere e di affermare che c’è un unico, vero Islam e che la follia omicida della jihad non è religione, ma fanatismo. Scritto dal regista con Kessen Tall, presentato a Cannes 2014 dove ha vinto solo il premio della Giuria Ecumenica, è forse il primo film specificatamente sul tema della jihad, e arriva in un periodo peraltro caldissimo su quel fronte. È quindi non solo un film importante e riuscito, ma un’opera necessaria, capace di affermare a gran voce la non violenza della religione islamica e la crudele corruzione di ideali operata dai terroristi.
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A Timbuktu, nel cuore dell’Africa, si incrociano le vicende di numerose famiglie e personaggi, costrette a convivere con la brutalità dei terroristi jihadisti e la loro visione corrotta dell’Islam. Ma c’è anche chi ha il coraggio di resistere e di affermare che c’è un unico, vero Islam e che la follia omicida della jihad non è religione, ma fanatismo. Scritto dal regista con Kessen Tall, presentato a Cannes 2014 dove ha vinto solo il premio della Giuria Ecumenica, è forse il primo film specificatamente sul tema della jihad, e arriva in un periodo peraltro caldissimo su quel fronte. È quindi non solo un film importante e riuscito, ma un’opera necessaria, capace di affermare a gran voce la non violenza della religione islamica e la crudele corruzione di ideali operata dai terroristi. La trovata geniale di Sissako sta nel non raccontare una vera e propria trama, bensì nel filmare piccoli frammenti, che vanno a creare più la storia di un posto (Timbuktu, appunto) e delle persone che lo abitano, invece di limitarsi a narrare una vicenda in particolare. Un film quindi impegnativo, non per tutti certo, ma che tutti dovrebbero vedere. E il suo messaggio, il suo finale, sono di una potenza che nessuno spettatore potrà dimenticare. Un vero piccolo grande capolavoro!
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no_data
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venerdì 13 marzo 2015
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gli orrori della jihad
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I soprusi e le malavagità commessi in nome della fede per una religione, che troppo spesso viene usata come pretesto per commetterli. La bellezza di una famiglia che tenta di sopravvivere al di fuori dell'oppressione, standosene a vivere nel deserto e di un padre che non rinuncia alla propria dignità quando viene inevitabilmente coinvolto in questa assurda guerra.
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francesco maraghini
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domenica 1 marzo 2015
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antidoto contro estremismo islamico e islamofobia
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E' meglio essere frustati da un miliardario o da un estremista islamico? A giudicare dagli incassi di "50 sfumature di grigio" e di "Timbuktu" il pubblico italiano sembra preferire la prima opzione. Ma, scherzi a parte, questo film del regista africano Sissako (nato in Mauritania ma vissuto per molto tempo in Mali) meriterebbe molta più attenzione. Perchè, attraverso le storia del pastore Kidane e della sua famigliacome di altri personaggi, ci narrà la vita quotidiana sotto l'oppressione del regime oscurantista instaurato nel nord del Mali nel corso del 2012 da varie milizie di estremisti islamici, alcune delle quali affiliate ad Al Qaeda,
Oppressione con tutto il suo seguito di assurde probizioni dalla musica al calcio (e la partita giocata dai ragazzi africani senza pallone è senz'altro la scena più poetica del film) e di punizioni per i trasgessori dalle frustate in pubblico fino alla lapidazione degli adulteri.
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E' meglio essere frustati da un miliardario o da un estremista islamico? A giudicare dagli incassi di "50 sfumature di grigio" e di "Timbuktu" il pubblico italiano sembra preferire la prima opzione. Ma, scherzi a parte, questo film del regista africano Sissako (nato in Mauritania ma vissuto per molto tempo in Mali) meriterebbe molta più attenzione. Perchè, attraverso le storia del pastore Kidane e della sua famigliacome di altri personaggi, ci narrà la vita quotidiana sotto l'oppressione del regime oscurantista instaurato nel nord del Mali nel corso del 2012 da varie milizie di estremisti islamici, alcune delle quali affiliate ad Al Qaeda,
Oppressione con tutto il suo seguito di assurde probizioni dalla musica al calcio (e la partita giocata dai ragazzi africani senza pallone è senz'altro la scena più poetica del film) e di punizioni per i trasgessori dalle frustate in pubblico fino alla lapidazione degli adulteri.
Al di la della forma, che pure è eccellente in particolare per la splendida fotografia dei vari paesaggi africani, l'importanza del film è a mio giudizio nei messaggi che ci manda. in primo luogo ci ricorda che nonostante tutte le stragi avvenute in Occidente, dalle Torri Gemelle di New York, alla stazione di Atocha a Madrid, dagli autobus di Londra a Charlie Hebdo a Parigi, le principali vittime degli estremisti islamici sono e restano le popolazioni dei paesi che essi controllano o in cui comunque agiscono.
In secondo luogo ci mostra come la prima opposizione all'interpretazione oscurantista dell'islam data dalle correnti estremiste -la cui diffusione è spesso favorita dalla filo-occidentale Arabia Saudita aggiungo io- viene proprio dalle autorità religiose (nel nostro caso l'imam che tenta invano di opporsi ad un matrimonio forzato) e dai semplici credenti musulmani la cui fede è in netto contrasto con le imposizioni di questi estremisti. Il migliore antidoto possibile quindi, specie di questi tempi, sia contro l'estremismo islamico che contro l'islamofobia.
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pepito1948
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martedì 24 febbraio 2015
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violenza, poesia, bellezza: gli ingredienti magici
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Succede da sempre che un Potere irrompa e si insinui in un territorio imponendo proprie regole, attraverso la persuasività della forza, ad una popolazione debilitata da condizioni avverse. Se le regole sono legate ad una religione, e se la religione è la sharia, le regole diventano la legge di Dio , quindi sono assolute ed inderogabili. Chi agisce in nome del potere (religioso), è guidato da Dio e da questo legittimato in ogni suo gesto politico. In tale ottica il Potere proibisce, impone obblighi di fare e soprattutto di non fare, non parla mai di diritti; vieta rigorosamente tutto ciò che si identifica con i nemici di Dio o che è sintomo di corruzione, quindi in prima linea tutto ciò che è antitesi culturale (l’empio Occidente): non fumare, non giocare a pallone, non fare o ascoltare musica, salvo essere indulgente verso questi reati-peccati se è il potere stesso a commetterli.
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Succede da sempre che un Potere irrompa e si insinui in un territorio imponendo proprie regole, attraverso la persuasività della forza, ad una popolazione debilitata da condizioni avverse. Se le regole sono legate ad una religione, e se la religione è la sharia, le regole diventano la legge di Dio , quindi sono assolute ed inderogabili. Chi agisce in nome del potere (religioso), è guidato da Dio e da questo legittimato in ogni suo gesto politico. In tale ottica il Potere proibisce, impone obblighi di fare e soprattutto di non fare, non parla mai di diritti; vieta rigorosamente tutto ciò che si identifica con i nemici di Dio o che è sintomo di corruzione, quindi in prima linea tutto ciò che è antitesi culturale (l’empio Occidente): non fumare, non giocare a pallone, non fare o ascoltare musica, salvo essere indulgente verso questi reati-peccati se è il potere stesso a commetterli. L’imposizione attraverso la jihad (guerra santa) della sharia (legge coranica), come missione ispirata da Dio che riecheggia il ”Dio lo vuole!” dei crociati cristiani, richiede l’uso della forza da parte del Potere che non ammette rifiuti o dinieghi: ogni resistenza, in quanto ostacolo alla sharia, è sacrilega quindi merita il castigo. Il Potere, ispirato dalla sharia, vuole la donna vincolata alla rete di obblighi propri del suo ruolo, che la confinano entro un ristretto recinto operativo a difesa della moralità degli uomini: la sua pelle e i suoi movimenti devono essere sfumati al massimo alla vista degli altri. Perfino le sue mani, principali artefici dei gesti quotidiani di sopravvivenza, devono essere coperte dai guanti. Il Potere, ispirato dalla sharia, dà diritto ad ogni buon jihadista di scegliere una donna tra la popolazione, a prescindere dal suo consenso o da quello della madre. Il Potere, ispirato dalla sharia, in caso di reato-peccato, emette sentenze inappellabili, attraverso proprie corti di giustizia che applicano pene anche estreme ritenute in linea con i principi coranici. Il Potere, fortificato dalla sharia, si espande in modo tentacolare e vigila anche nei luoghi sperduti in pieno deserto, portando il verbo intransigente di Dio in qualsiasi posto sia alla sua portata.
Il Potere insegue gli avversari, li tallona e li sfianca come una preda che fugge zig-zagando dovunque intraveda una possibilità di salvezza.
Le vittime del Potere sono le donne che si ribellano ad un matrimonio forzato o ai guanti che impediscono di pulire il pesce. Sono i ragazzi che cercano di giocare squarciando il velo di severità immanente e, per difendersi dagli artigli del Potere, ricorrono all’immaginazione. Sono gli uomini, quasi assenti, costretti al silenzio ed a decolorare il proprio vissuto di individui per la paura di articolare il pensiero. Perfino l’altro potere, quello tradizionale e pacifico di un imam, nulla può contro il Potere, ispirato da Dio, del fondamentalismo dominante. Le vittime sono il libero pensiero, l’arte, l’autodeterminazione, le tradizioni radicate e seguite sul territorio, la parola e il linguaggio degli avi.
Dall’immane forza disgregatrice di tutto questo viene investita una famiglia felicemente raccolta sotto una tenda nel deserto, i cui componenti, travolti dall’onda d’urto, si avvieranno a destini diversi.
L’africano A. Sissako, uno dei più eminenti registi del continente nero, prende spunto dalla recente invasione del Nord del Mali (ma il film è girato in Mauritania) da parte dei fondamentalisti islamici, per imbastire un racconto sulla disumanità di una guerra e di uno scontro senza senso, e per estensione sui rischi di un conflitto che trascende i confini territoriali e che, ispirato da un credo inflessibile, corrobora e moltiplica forze, risorse e spinte difficilmente arrestabili. Lo fa con una sensibilità (e una cautela) tutta africana (come lo scomparso Sembene con il suo Mooladè), coniugando violenza e poesia, elementi apparentemente antitetici ma abilmente mescolati dalle mani esperte del regista. La violenza non è narrata nei suoi aspetti più feroci, sanguinari ed appariscenti, ma si insinua sottilmente in un agire dove l’apparire nasconde come una fitta rete (ma pur sempre rete) il reale essere: uomini stimolati da una profonda fede, motivazioni granitiche, processi con contraddittorio, interazioni dialoganti che sembrano fluire ma che sottendono una realtà precostituita, immobile e perciò immodificabile e mortificante. La violenza (non l’Islam che Sissako rispetta come si evince dal dialogo tra imam e integralista) non è avvertita come una sciabolata ma come una sequela di penetranti stilettate. La poesia dei visi di tutte le donne coinvolte mette in risalto il contrasto con la brutalità fasciata dei fondamentalisti, i loro abiti pluricolorati rivelatori di ricchezza interiore confliggono con l’arido vestiario degli uomini dominanti che quasi non si distingue dal desertume circostante. Sembra quasi di scorgere una doppia valenza nell’uomo della tenda nel deserto che sembra correre sulle acque del fiume verso un destino tragico, come un Cristo consapevole di andare verso il proprio martirio.
La difficoltà di comunicare, rimarcata dalla pluralità di dialetti che non si incontrano, sottolinea l’incomprensibilità tra visioni diverse nonostante il comune credo, che evidenzia l’assurdità di un conflitto così profondo tra fratelli di fede.
Una grande opera densa e spessa in cui il dolore, la sofferenza e la sopraffazione sono filtrati paradossalmente dalla bellezza: delle immagini, delle donne, dei paesaggi, dell’innocenza, quasi per lenire l’assorbimento da parte di chi osserva della durezza di una realtà, che inevitabilmente evoca scene recenti di sagome arancioni inginocchiate o chiuse in stie metalliche ripetute in mondovisione in un crescendo senza fine. Peccato per un doppiaggio troppo occidentale per rendere al meglio atmosfere e pensieri di culture lontane dalla nostra; ma è l’unica dissonanza in una splendida sinfonia.
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fabiofeli
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martedì 24 febbraio 2015
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cantare è civiltà
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Siamo nel Mali, un luogo nel quale gli idiomi locali si mescolano con quelli importati dall’Europa in una babele decifrabile solo con gli interpreti. Le immagini aprono e chiudono con una gazzella che corre all’impazzata e non sa dove andare per sfuggire a un destino segnato. Come l’animale, folle di paura, corrono la bambina sola al mondo, il ragazzo che guarda le mucche della famiglia di lei, il giovane con la moto, i truci miliziani della jihad che aspirano a imporre militarmente un assurdo, disordinato, insensato “ordine”, che riecheggia sinistramente fascismo e nazismo. Dove vanno, che destino avranno non si sa: di sicuro si perderanno nel deserto di morbide dune di sabbia, se non ci sarà qualcuno che indichi loro una via di uscita per raggiungere la realtà.
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Siamo nel Mali, un luogo nel quale gli idiomi locali si mescolano con quelli importati dall’Europa in una babele decifrabile solo con gli interpreti. Le immagini aprono e chiudono con una gazzella che corre all’impazzata e non sa dove andare per sfuggire a un destino segnato. Come l’animale, folle di paura, corrono la bambina sola al mondo, il ragazzo che guarda le mucche della famiglia di lei, il giovane con la moto, i truci miliziani della jihad che aspirano a imporre militarmente un assurdo, disordinato, insensato “ordine”, che riecheggia sinistramente fascismo e nazismo. Dove vanno, che destino avranno non si sa: di sicuro si perderanno nel deserto di morbide dune di sabbia, se non ci sarà qualcuno che indichi loro una via di uscita per raggiungere la realtà. Certo non servirà coprire il capo delle donne, o i piedi e le loro gambe con le calze, le loro mani con i guanti anche quando vendono il pesce, farle sposare con l’uso della forza anche se non vogliono; né ha senso vietare di cantare, di ridere, perfino di giocare al calcio. Quelli che vogliono imporre queste idiozie come false verità del Corano si fanno propaganda con giornalisti in cerca di scoop, oppure con video di rapper, “pentiti” ma nemmeno tanto. Ma cantare non è stata una delle prime, se non la prima espressione artistica dell’uomo? I jihadisti, da parte loro, violano i dettami della religione islamica, invadendo la moschea con scarponi militari ed armi automatiche in un memorabile piano sequenza: l’iman dagli occhi azzurri e i baffi candidi spiega agli squallidi immorali che hanno infranto la prima regola religiosa dell’Islam. E allora che senso ha fustigare o lapidare chi – secondo loro – ha “peccato”? Costoro si arrestano solo di fronte alla follia di una donna che con abiti variopinti e lungo strascico pratica riti vudù e sciamanici. Intoccabile: non è vero, ma ci credo.
La storia che lega le immagini è esile: una famiglia di pastori che vive in una tenda nel deserto, un padre una madre e una figlia, viene a contrasto con un pescatore perché un ragazzo orfano che custodisce le loro sette mucche non riesce a impedire ad una di esse di lacerare le reti del pescatore; per ritorsione la mucca viene uccisa con il lancio di un bastone acuminato. Il pescatore a sua volta cadrà vittima nella colluttazione col pastore per un colpo accidentale di pistola. Il destino dell’involontario uccisore è segnato: gli amministratori della giustizia sono gli amanti degli assurdi divieti, che non sono certo portati ad andare tanto per il sottile nell’appurare la meccanica dei fatti.
Il regista filma con mano sicura, regalandoci una stupenda scena di cinema surreale: nella partita di calcio il pallone inesistente costruisce azioni, lanci, dribbling, tiri a rete, gol ed esultanza dei giocatori; una perfetta citazione della classica e memorabile partita di tennis ripresa seguendo i volti degli spettatori che si girano a seguire l’azione fuori campo, concentrati sui tonfi delle racchette sulla palla. Dialogo scarno e recitazione intensa degli attori costruita con gestualità e primi piani, uniti ad una fotografia del paesaggio di alto livello, costruiscono un film di grandissimo valore. Il finale aperto e disperato indica agli africani e al mondo intero che si deve recuperare un cammino di civiltà. Da non mancare assolutamente.
Valutazione ****
FabioFeli
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writer58
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domenica 22 febbraio 2015
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je suis kidane...
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"Sfiancala, non ucciderla", questa è la frase di un gruppo di jihadisti che insegue una gazzella a bordo di un pick up nella savana del Mali. "Sfiancala, non ucciderla" appare come una metafora, è un'espressione che interpreta l'essenza stessa dello jihadismo, spesso forza d'occupazione che arriva da altri paesi, assoggetta intere comunità musulmane e impone una ideologia regressiva basata su una distorsione fondamentalista del Corano. E' proibita la musica, è proibito il fumo, il calcio, non si può stare seduti sulla soglia di casa, le donne devono portare velo integrale e guanti, è proibito conversare in gruppo per strada. Metafora parziale perché i fedeli non vengono soltanto sfiancati dalle proibizioni e dalle censure, ma vengono anche uccisi - la lapidazione della coppia non sposata-, frustati a sangue -i giovani che sfidano il divieto di fare musica-, violentati nelle loro tradizioni-le donne date in matrimonio forzosamente ai combattenti-.
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"Sfiancala, non ucciderla", questa è la frase di un gruppo di jihadisti che insegue una gazzella a bordo di un pick up nella savana del Mali. "Sfiancala, non ucciderla" appare come una metafora, è un'espressione che interpreta l'essenza stessa dello jihadismo, spesso forza d'occupazione che arriva da altri paesi, assoggetta intere comunità musulmane e impone una ideologia regressiva basata su una distorsione fondamentalista del Corano. E' proibita la musica, è proibito il fumo, il calcio, non si può stare seduti sulla soglia di casa, le donne devono portare velo integrale e guanti, è proibito conversare in gruppo per strada. Metafora parziale perché i fedeli non vengono soltanto sfiancati dalle proibizioni e dalle censure, ma vengono anche uccisi - la lapidazione della coppia non sposata-, frustati a sangue -i giovani che sfidano il divieto di fare musica-, violentati nelle loro tradizioni-le donne date in matrimonio forzosamente ai combattenti-.
Il film di Sissako -regista nato in Mauritania, vissuto in Mali e maturato artisticamente in Francia- ricostruisce in modo rigoroso e formalmente ineccepibile l'oppressione di una comunità soggetta alla shari'a nei pressi di Timbuktù, mitica città tuareg, crocevia dei sultanati che raggiunsero un elevatissimo grado di civilizzazione più di 600 anni fa. Lo fa mettendo a confronto l'ideologia totalitaria e violenta dei fondamentalisti con la spiritualità autentica dell'imam locale e soprattutto con l'affetto profondo di una famiglia che vive sotto una tenda tra le dune del deserto allevando una piccola mandria di mucche. Una delle mucche, portate ad abbeverarsi nel fiume, si impiglia nelle reti di un pescatore e viene uccisa. Kidane -così si chiama il capofamiglia- non accetta il sopruso e cercherà giustizia...
Qualcuno ha scritto che Timbuktù non è un film antiislsmico. La notazione è pienamente condivisibile. E' il fondamentalismo ad essere una pratica antireligiosa e disumana, mentre i membri della comunità vivono una spiritualità profonda e connaturata col loro modo di vivere, che convive con un ambiente maestoso e splendido, fotografato in modo magnifico.
Il film di Sissako sviluppa questa antinomia in modo intenso e fluido, con una grande padronanza tecnica ed espressiva, evitando di cadere in facili contrapposizioni pedagogiche. Gli jahidisti fumano di nascosto, parlano di calcio, applicano la legge coranica in modo ottuso e spietato, ma evitano gli eccessi degni di un film dell'orrore commessi dall'Isis. Assomigliano ai Talebani in Afganistan, ma ciò è forse ancora più inquietante, perché suggerisce che il fondamentalismo, nella sua pratica quotidiana, non ha bisogno di decapitare ostaggi o bruciare vivi i piloti, "si accontenta" di sottomettere le coscienze e la vita quotidiana delle comunità che opprime.
L'opera di Sissako mi è parsa dolorosamente splendida, intrisa di emozioni autentiche, di spiritualità che sembra nascere e levarsi dal cuore pulsante dell'Africa, dai suoi fiumi, dalle sue estensioni ondulate senza fine. Suggerisce che la lotta per liberarsi da oppressioni vecchie e nuove è complicata e lunga, ma indispensabile per recuperare dignità e una prospettiva di speranza.
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vanessa zarastro
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domenica 22 febbraio 2015
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culture a confronto
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Un film intenso che mi ha evocato alcune pellicole di Pier Paolo Pasolini per l’essenzialità e quasi secchezza del racconto, per la durezza, per alcune simbologie e per i tempi lenti quasi dilatati. Sembra un congegno teatrale con tre scene: la tenda nella duna, l’oasi e l’agglomerato urbano. I processi, le lapidazioni, le fucilazioni avvengono tutti attorno a queste quatto case con 5 o 6 persone. Sissako, regista e produttore nato in Mauritania, mette in atto una sorta di demitizzazione del luogo urbano poiché di Timbuktu sono rappresenta queste poche case di terra nel deserto e non certo una città rumorosa o piena di gente. Il territorio malese è molto più vasto e non può essere rappresentato da una città.
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Un film intenso che mi ha evocato alcune pellicole di Pier Paolo Pasolini per l’essenzialità e quasi secchezza del racconto, per la durezza, per alcune simbologie e per i tempi lenti quasi dilatati. Sembra un congegno teatrale con tre scene: la tenda nella duna, l’oasi e l’agglomerato urbano. I processi, le lapidazioni, le fucilazioni avvengono tutti attorno a queste quatto case con 5 o 6 persone. Sissako, regista e produttore nato in Mauritania, mette in atto una sorta di demitizzazione del luogo urbano poiché di Timbuktu sono rappresenta queste poche case di terra nel deserto e non certo una città rumorosa o piena di gente. Il territorio malese è molto più vasto e non può essere rappresentato da una città.
I detentori del potere sono dipinti sempre in contraddizione: non si può fumare ma il capo jihadista fuma, è vietato il calcio ma lui parla di Zidane e Messi; fanno pensare alla famosa frase che una volta si attribuiva ai preti cattolici “fate quello che dico ma non fate quello che faccio”. Molto bella è la scena muta dei ragazzi che giocano una partita di calcio senza pallone. Inutile, credo, menzionare la situazione delle donne, costrette sempre da nuove regole repressive; nel film le si impongono scarpe e guanti perfino a quelle che svolgono lavori manuali fondamentali per la loro sopravvivenza come ad esempio pulire il pesce!
In Timuktu è rappresentata la differenza tra due culture: quella nera e quella araba, così come modi diversi di essere religiosi. In contrapposizione al fanatismo jihadista viene, infatti, descritto il modo di essere religioso del pastore Kidane, che vive con la moglie Satima e la loro figlia Toya sotto una tende nel deserto. Due sono i personaggi simbolico-trasgressivi: la donna matta con la sua gallina-compagna di vita, i suoi fiocchetti e i suoi colori e il salvatore con la moto (come la gazzella che scappa…si salveranno?)
Ottima la fotografia del film che in originale ha un titolo molto più poetico – Le Chagrin des Oiseaux - ed è già vincitore del Premio della Giuria Ecumenica a Cannes, è candidato all’Oscar come migliore film straniero.
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alexandra mann
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venerdì 20 febbraio 2015
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un film necessario, di quelli che non dimentichi.
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In questo periodo assistiamo sempre più spesso alle atrocità compiute dai jihadisti nei confronti degli occidentali e non solo. Questo inevitabilmente (in realtà causa ignoranza della gente e disinformazione da parte dei nostri "bei" politici, Lega Nord e Fratelli d'Italia docet) ha fatto sì che molta gente facesse di tutta l'erba un fascio inorridendosi ogni qual volta gli capitasse davanti un qualsiasi musulmano (chiamasi islamofobia). In realtà non c'è niente di più sbagliato. Perché così facendo non si fa altro che il gioco dei terroristi, infatti il loro obiettivo è quello di istigare all'odio verso la minoranza islamica presente in occidente e di conseguenza creare un conflitto occidente vs medio oriente (per farla breve).
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In questo periodo assistiamo sempre più spesso alle atrocità compiute dai jihadisti nei confronti degli occidentali e non solo. Questo inevitabilmente (in realtà causa ignoranza della gente e disinformazione da parte dei nostri "bei" politici, Lega Nord e Fratelli d'Italia docet) ha fatto sì che molta gente facesse di tutta l'erba un fascio inorridendosi ogni qual volta gli capitasse davanti un qualsiasi musulmano (chiamasi islamofobia). In realtà non c'è niente di più sbagliato. Perché così facendo non si fa altro che il gioco dei terroristi, infatti il loro obiettivo è quello di istigare all'odio verso la minoranza islamica presente in occidente e di conseguenza creare un conflitto occidente vs medio oriente (per farla breve).
In realtà sono in primis i musulmani ad essere presi di mira dai jihadisti, per l'appunto un numero impressionante o addirittura inquantificabile di musulmani viene barbaramente ucciso ogni giorno dall'Isis (In Africa centro-occidentale si tratta di Boko Haram).
Perché una cosa sono gli islamici, popolo che professa la propria religione in modo pacifico... tutt'altra cosa sono i fondamentalisti/estremisti/integralisti (dai "valori" tranquillamente assimilabili al nazismo).
Ebbene, questo film mostra con grande maestria ciò che avviene nei pressi e all'interno della città di Timbuktu (città del Mali), assaltata e sotto il totale controllo degli estremisti. Prima del loro arrivo la popolazione viveva in totale tranquillità e libertà. Dal loro arrivo invece tutto è diventato un inferno costituito da leggi assurde (come il divieto di ascoltare musica, giocare a pallone, riunirsi in piazza, l'obbligo per le donne di indossare velo integrale e guanti), punizioni atroci (40 frustate per chi disobbedisce al minimo divieto, oppure lapidazione per gli adulteri o semplicementi per chi si ama liberamente senza però aver contratto matrimonio).
Nel film assistiamo ad una vera e propria escalation di violenze, fatta da limitazioni sempre più violente e folli allo stesso tempo. Sullo sfondo si contrappone un paesaggio naturale e idilliaco, esaltato dalla splendida fotografia e dalla curatissima regia di Sissako, che è attualmente uno dei più famosi e apprezzati registi africani a livello internazionale.
"Timbuktu" è attualmente candidato all'Oscar come miglior film straniero... spero proprio che lo vinca.
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