Pinocchio

In questo film Benigni, lungi dall’avere abbandonato la sua arte, piuttosto, l’ ha ritrovata; infatti, è partito dal fondo disperato dei suoi tentativi di attore, per giungere infine ad essere autore, radicalmente al di là di ogni traccia del suo artigianato precedente. Così, nel film la marionetta è una maschera impersonale, né viva - o addirittura ‘troppo viva’ come il precedente Benigni -, né morta, ma, semplicemente, attestata in quella dimensione metafisica dove oggi è possibile guardare il romanzo di Collodi con lo sguardo del disincanto, e con l’occhio nuovamente abbagliato da un altro incanto. Forse era necessario restare all’interno del modulo di un realismo comico, appena intinto di qualche esile riverbero poetico, e concentrato ancora una volta sulla bravura della recitazione? Qui, finalmente, quello che della vita è stato detto è scomparso, perché, una buona volta, della vita stessa apparisse qualcosa di autentico, sotto la forma di un senso. E allora il film dissemina il fascio dei propri austeri significati nella ilare danzante coreografia del suoi luoghi notturni e diuturni, dei suoi imbuti infernali e dei sogni di paradiso che ne costellano l’iridiscente tessuto, usando una serie di referenti (Fellini Spielberg Carné Bresson o addirittura Bosch) con il possesso insieme ipnotico e rigoroso di un segno inconfondibile, benché sconosciuto (perché questa è la prima opera del regista, la sua autentica stupenda opera prima). In Pinocchio non vi sono contaminazioni o rimandi eruditi: i nomi richiamati nascono da risonanze inconsce, da convergenze o da prestiti necessari e completamente assorbiti nel gioco di una necessità espressiva in fondo altera e sprezzante, benché priva di ogni pretesa di entrare nel concerto di qualche potere (magari con la trovata umanitaria certamente apprezzabile ma anche astuta di una idea storicamente segnata..). E al di là dei giochetti verbali sul fatto se sia il caso di introdurre nel corpo vivo dell’opera di Collodi una sensibilità proiettata in un incerto futuro, e delle sperdute infantili nostalgie per il Pinocchio autentico, per il vero Collodi e per il genuino Benigni, sarebbe il caso di affidarsi al gioco di un estro che adotta specchi e veli, simulazioni e doppi, ambiguità e bivalenze, deliziati orrori e orripilate delizie con la rabbia, la forza e la padronanza che rivelano la mano autentica di un maestro. Guardate dunque quelle menti di bambini in quei corpi di adulti, quelle ombre di truci assassini che pullulano da ogni angolo, quel canile dove un prigioniero inerme, attonito e gigantesco è quasi murato vivo, quella disperazione stridula e meccanica, quel grido propositivo dove un’angoscia irreale è immersa nel nulla, quei corpi umani deposti accanto ai loro doppi animali, quello spento animale che è più umano e pietoso dell’ultimo degli esseri umani… Ci sono opere che si vedono senza poter guardare nulla, ma ci sono anche opere che rischiano di essere guardate, senza vederne nulla!