Quando penso al primo Ray, sempre mi torna alla mente questo film. E' un'operina, per certi versi, poco pretenziosa e poco ambiziosa. In apparenza, non sembrerebbe un film di vera e propria denuncia sociale; a prima vista è un film drammatico che parla della triste parabola di uno sfortunato giovane dei bassifondi di San Francisco. In realtà si respira qui l'atmosfera determinista dei Naturalisti: l'incapacità cioè degli emarginati di affrancarsi dalla loro condizione.
Secondo Bogart, la condanna di Romano era già stata scritta: la sua condizione di orfano di padre, il suo temperamento irascibile, la sua fragilità emotiva e psicologica non possono che sfociare nel delitto. Magistrale (forse è il pezzo migliore del film) è la sua arringa, accorata e seducente, che tenta l'impossibile: scaricare sulla nostra società egoista e classista le colpe dei singoli.
Il giudice non può che condannare Nick alla sedia elettrica.
Il regista riprende anche qui un tema a lui caro: l'incapacità dei "giusti" o semplicemente dei "buoni" di integrarsi nella nostra società. In un mondo di "lupi", gli agnelli e cioè gli emarginati, i semplici e i deboli (economicamente e psicologicamente) sono destinati ad essere divorati.
E' una linea cara a diversi registi, primo fra tutti, Anthony Mann. Ma siamo anche nel campo caro a Robert Aldrich e cioè il tema del "loser", del perdente. I protagonisti della cinematografia rayana sono in effetti dei perdenti, condannati all'insuccesso e incapaci di imporsi in una società competitiva e spietata.
Il film merita una lode per i dialoghi secchi e precisi come pistolettate e per l'nterpretazione ottima di Bogart.
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