Prima la musica, poi le parole

Un film di Fulvio Wetzl. Con Anna Bonaiuto, Amanda Sandrelli, Gigio Alberti, Jacques Perrin, Barbara Enrichi.
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Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 99 min. - Italia 1998. MYMONETRO Prima la musica, poi le parole * * * - - valutazione media: 3,39 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

L’affetto : musica = le parole : crescita Valutazione 5 stelle su cinque

di fabriziocolamartino


Feedback: 100
lunedì 6 gennaio 2014

Fin dal titolo, Prima la musica, poi le parole, il film di Wetzl rimanda a un modo totalmente diverso di concepire l’ordine delle cose: quello di Giovanni, il piccolo protagonista, il cui linguaggio è incomprensibile agli altri poiché strutturato su schemi logici differenti da quelli convenzionali, ma anche quello proprio di chi compone canzoni, la cui regola principale è di creare prima la melodia per poi cercare le parole giuste da accompagnarvi. Al di là dell’illustrazione di un caso del tutto particolare e paradossale come quello del piccolo Giovanni, ciò cui allude il titolo è la necessità, reale e vitale per ogni individuo, di costruire le strutture logiche del proprio pensiero (e quelle del linguaggio anzitutto) a partire da un substrato affettivo forte che può essere dato soltanto in presenza di un nucleo familiare al cui interno le varie componenti coesistano in un rapporto di reciproco equilibrio. Solo sulla “musica” prodotta dall’affetto e dai sentimenti è possibile intonare le parole giuste, quelle che permetteranno al bambino di relazionarsi correttamente e razionalmente con il mondo che lo circonda. Così non è per Giovanni, educato da suo padre a utilizzare un linguaggio speculare rispetto all’italiano, ma soprattutto privato del sostegno affettivo della madre, fuggita poco tempo dopo averlo dato alla luce. Con la morte del padre, paradossalmente vittima di se stesso e della propria presunzione (le sue ultime parole. “Giovanni, và a chiamare qualcuno”, non vengono ovviamente comprese dal bambino, abituato al linguaggio speculare che proprio Lanfranco gli ha insegnato), Giovanni esce nel mondo, è costretto a confrontarsi con gli altri e a prendere atto della propria diversità. Come spesso accade, tuttavia, la risposta della società a chi è ritenuto diverso è la reclusione in un luogo di cura, l’ospedalizzazione tendente a isolare il soggetto per studiarne il comportamento al riparo da influenze esterne e a proteggerlo dai traumi che il contatto con gli altri potrebbe provocare. I colleghi di Marina ripetono involontariamente ciò che Lanfranco aveva fatto deliberatamente: isolano Giovanni come fosse un animale da laboratorio nel vano tentativo di trovare una causa organica al problema e, soprattutto, tentano di imporre al bambino un linguaggio per vie del tutto astratte, impedendone il naturale reinserimento nella comunità e soprattutto quel rapporto “affettivo” ed empirico con la realtà che possa scardinarne le vecchie abitudini. In fondo, l’assurdo comportamento di Lanfranco rispecchia il desiderio più o meno inconscio di ogni genitore di plasmare il proprio figlio senza che altri possano influire sulla sua educazione: quale sistema migliore di un totale isolamento del bambino all’interno di un universo linguistico al quale nessun altro può accedere? Il merito principale di Marina, dunque, sta non solo nel riuscire a comprendere il linguaggio misterioso di Giovanni e di averlo strappato a quella condizione di malato che ne avrebbe bloccato per sempre lo sviluppo ma, soprattutto, di aver creato una condizione all’interno della quale fosse possibile sviluppare quella componente “affettiva” del linguaggio grazie alla quale alla musica dei significanti della lingua (i suoni delle parole) corrispondano dei significati (e soprattutto dei referenti) con i quali il bambino possa avere un contatto diretto, reale e non solo astratto e riflesso così com’era nelle intenzioni del padre.

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