teresa trivellin
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martedì 16 maggio 2006
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"faville che sono soltanto cenere"
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Antieroica e favolistica rappresentazione, a tratti teatrale, surreale e picaresca, “straniata”, con contaminazioni di generi e citazioni letterarie veristiche e risorgimentali, dell’ultima avventura “patriottica” del nobile Fulvio Imbriani, prestato alla causa giacobina dei “Fratelli Sublimi”, ma in realtà avviato verso un cammino di personale “restaurazione” nell’elegante disimpegno della vita aristocratica.
Uscito in accesa e allegorica redingote rossa da un ufficio di polizia, nel 28° della “gloriosa rivoluzione francese” – negli anni della restaurazione – Fulvio, febbricitante, tenta di svincolarsi dai suoi onnipresenti e quasi perseguitanti Fratelli che, tra ingenuità, saggezza, dogmatismi e velleitari impeti romantici vogliono andare al Sud per liberarlo dalla miseria.
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Antieroica e favolistica rappresentazione, a tratti teatrale, surreale e picaresca, “straniata”, con contaminazioni di generi e citazioni letterarie veristiche e risorgimentali, dell’ultima avventura “patriottica” del nobile Fulvio Imbriani, prestato alla causa giacobina dei “Fratelli Sublimi”, ma in realtà avviato verso un cammino di personale “restaurazione” nell’elegante disimpegno della vita aristocratica.
Uscito in accesa e allegorica redingote rossa da un ufficio di polizia, nel 28° della “gloriosa rivoluzione francese” – negli anni della restaurazione – Fulvio, febbricitante, tenta di svincolarsi dai suoi onnipresenti e quasi perseguitanti Fratelli che, tra ingenuità, saggezza, dogmatismi e velleitari impeti romantici vogliono andare al Sud per liberarlo dalla miseria. Lo “annoiano”: sono diventati “tremende abitudini”.
Di fronte all’amico Filippo, suicida, morto senza vedere quel “mondo diverso, pacifico e felice” per cui aveva speso, invecchiando anzi tempo, i suoi quarantacinque anni, decide così di tornare travestito - moderno Ulisse antiepico - nella sua casa, riconosciuto subito (come si addice all’eroe) dal cane fedele e dall’antica e materna nutrice.
La ritrovata apparente quiete domestica, i gioviali e quasi burleschi familiari – un teatrino di ingenuità e inconsapevolezza - lenzuola bianche e stanze di neoclassica “calma bellezza”, risolvono l’inquietudine di Fulvio e gli rivelano la strada della palingenesi: le Americhe ed una vita lontana dai clamori della lotta.
“Fammi bello” chiede allora alla vecchia balia, dopo essersi finalmente svegliato, guarito dalla febbre e dai furori rivoluzionari.
“Sono guarito sono cambiato; sto bene qui dove tutti mi vogliono bene”, dichiara a se stesso; ma, come Ulisse sedotto dalle sirene, deve difendersi nuovamente dal “reo tempo” che ripiomba nella sua quiete: Charlotte, anticonformista, provocante, un tempo amata compagna e madre di un suo figlio lontano, ma ora estranea, lontana; Francesca, fragile, sottomessa; gli implacabili “fratelli”. E ancora dunque, di nuovo nel vortice dell’insurrezione.
Sa soltanto, però, quello che non vuole più: non vuole aspettare la “felicità universale”; vuole “vivere, non sopravvivere” come Tito, a “qualcosa che è morto da tempo” e grida a se stesso: “A me la vita è data una sola volta! Chi di voi mi ama abbastanza per proteggermi contro la morte?”
Fulvio-Ulisse, questa volta dantesco, affronta così l’ultima sfida: parte, senza essere uno dei “trecento giovani e forti” del Mercantini e neppure uno dei Mille, con i suoi 20 compagni esaltati e fiduciosi, verso il sud, brullo, ventoso, pietroso, malarico, fermo nel tempo, distante dalla storia, superstizioso, infido e lealista; che vuole “acqua, medicine e farina, non armi e dolore”
Promette, mente e tradisce i suoi compagni che muoiono nelle loro divise rosse mentre egli fugge, vestito di bianco, verso la presunta libertà. Andando invece incontro alla tragica beffa finale che Allonsanfàn, sopravvissuto, gli prepara – lucidità o delirio? - raccontandogli la “sua” insurrezione vittoriosa, spingendolo così ad indossare ancora la rossa divisa su cui spareranno i soldati del re.
Problematica rilettura dei moti e del tentativo di liberare il Sud, sogno velleitario e astratto di intellettuali estranei alla realtà storicamente, culturalmente, linguisticamente distante del Meridione d’Italia. Ma anche evidente riferimento alla crisi della Sinistra italiana negli anni ’70.
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greatsteven
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giovedì 10 agosto 2017
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pagine di storia rinfrescate che prendono quota.
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ALLòNSANFAN (IT, 1974) diretto da PAOLO & VITTORIO TAVIANI. Interpretato da MARCELLO MASTROIANNI, LEA MASSARI, MIMSY FARMER, LAURA BETTI, CLAUDIO CASSINELLI, BENJAMIN LEV, RENATO DE CARMINE, STANKO MOLNAR, LUISA DE SANTIS, BIAGIO PELLIGRA, BRUNO CIRINO
Nel 1816, dopo la caduta di Napoleone, il congresso di Vienna dà avvio alla Restaurazione e tutti i re europei riacquistano i legittimi troni.
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ALLòNSANFAN (IT, 1974) diretto da PAOLO & VITTORIO TAVIANI. Interpretato da MARCELLO MASTROIANNI, LEA MASSARI, MIMSY FARMER, LAURA BETTI, CLAUDIO CASSINELLI, BENJAMIN LEV, RENATO DE CARMINE, STANKO MOLNAR, LUISA DE SANTIS, BIAGIO PELLIGRA, BRUNO CIRINO
Nel 1816, dopo la caduta di Napoleone, il congresso di Vienna dà avvio alla Restaurazione e tutti i re europei riacquistano i legittimi troni. Fulvio Imbriani, patrizio lombardo, aveva prestato servizio nei giacobini ed era stato ufficiale sotto gli ordini di Bonaparte. Dopo aver dedicato l’intera vita all’importanza della rivoluzione, ritorna alla casa paterna al termine di un’assenza ventennale. Ammalato e travestito, riscopre la famiglia, la gioia di vivere e l’affetto di un figlio. Viene raggiunto da Charlotte, la sua compagna, che lo supplica di riprendere la lotta assieme alla compagine rivoluzionaria. Per sbarazzarsi di loro, Fulvio li tradisce e insieme rinnega la causa di una minoranza combattiva e velleitaria, ma il suo atto sortisce un ben mesto effetto: si rivela inutile poiché l’aristocratico viene travolto in una missione suicida nel Sud Italia. Debitori nei confronti di Visconti e modificatori consapevoli del melodramma, inteso in una rilettura analitica, i Taviani realizzano un film epico e al contempo intimista che respinge i dettami della narrazione canonica e permette loro di proseguire sulla scia della sinistra politica, raccontandola con gli occhi di un personaggio fedifrago che si oppone agli ideali per cui dapprima aveva combattuto alacremente in quanto non crede nell’utilità di una purchessia reazione armata. Di Allònsanfan, la Stampa scrisse che ha un’esattezza di segno che ricorda il pittore olandese Rembrandt quando guizzano bagliori carnevaleschi, e il paragone artistico ci sta, considerando la sontuosità dei costumi (Lina Nerli Taviani) che riportano indietro nel tempo e consentono di riassaporare un’epopea pre-risorgimentale di un’Italia ancora frammentata e dilaniata da conflitti intestini il cui unico alimento era l’astio intercorrente fra i popoli regionali. Il Los Angeles Times osservò che la pellicola in questione si differenzia assai dai capolavori dei Taviani quali Padre padrone e La notte di San Lorenzo, regalando al pubblico un Mastroianni in una delle sue più eccelse interpretazioni. In effetti, la prova che diede è davvero fuori dal comune: tratteggia un patriota deluso e rinnegato con una potenza espressiva commovente, alternando il pathos all’autocommiserazione e seguendo passo per passo la presa di coscienza sua propria interiore che contraddice man mano quella dei commilitoni e lo spinge a voltare faccia e cambiare bandiera quando essi hanno proprio più bisogno del suo supporto. II periodo storico della Restaurazione non ha mai goduto di un’eccessiva rappresentazione sul grande schermo, ma è un dato positivo che il cinema italiano, per mezzo soprattutto dei Taviani che da sempre sono attenti alla Storia, ne dia una lettura lucida e attenta esaminando i suoi aspetti più cavillosi e andando a cercare le motivazioni che spinsero regnanti e governati a scendere in campo su fazioni opposte. Poche scene di battaglie, un’inventiva colonna sonora di Ennio Morricone e numerose attrici donne che si distinguono per un puntiglio pulito ed educato, fra cui spicca un’ottima L. Massari, affiancata da una Betti misurata e da una Farmer sotto le righe, un terzetto femminile che agisce da contraltare bilanciate per la vivacità psicologica e il carisma arrendevole del personaggio principale. La guerra praticamente non si vede, ma si percepisce benissimo, e il finale tragico ne culmina la tensione con un’esecuzione che viene ripresa in maniera sublime e raccontata con fare toccante e unanime. È anche un racconto di formazione che fa perno sul voltagabbana di un uomo incattivito e ormai impermeabile alla dialettica della rivoluzione, sebbene si noti presto che i due fratelli riescano assai meglio a descrivere gli apogei della regressione che non i motivi politicizzati che si nascondono dietro la lotta organizzata dei partigiani italiani e francesi. Piuttosto disomogeneo, con parti opache e poco equilibrate che inframmezzano altre decisamente più graziose, ma è capace di dare un giudizio, azzardato ma veritiero, su un’era che segnò uno spartiacque clamoroso fra il passato – la dittatura, l’impero napoleonico, i fasti della rivoluzione, la deposizione dei tiranni, il Direttorio e il Consolato – e il presente, con la sua spiazzante incertezza e la traballante struttura che faticava a reggere su un filo molto delicato e instabile i nuovi Stati che venivano formandosi. Nuovi, poi, per modo di dire: restaurati, affinché ogni trono spettasse al sovrano originario del principato, del ducato, del marchesato, della nazione. In ogni caso, coi suoi pregi e difetti, rimane un gradino ineliminabile per chi voglia conoscere l’Ottocento vedendo un film ben fatto che dedica agli argomenti storici un giustissimo e meritato occhio di riguardo, diventando in tal senso una prova da dover affrontare senza ombra di dubbio.
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rob8
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martedì 17 luglio 2018
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cinema civile e lucida analisi politica
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Il cinema civile dei fratelli Taviani trova in quest’opera, attraverso il filtro della Storia, una imprevista predittività rispetto agli avvenimenti dell’Italia coeva.
Erano tempi, infatti, quelli della metà degli anni settanta, che preludevano alla svolta della lotta armata, quale sbocco estremista e senza futuro dell’antagonismo ideologico rispetto ad una situazione economica e sociale molto difficile.
Così, l’apologo dei “Fratelli sublimi” che nel film vagheggiano ai primi dell’Ottocento di sollevare con le armi le masse dei contadini del Sud contro il potere restaurato, finendo invece massacrati, non può non essere letto – anche al di là degli intendimenti degli autori – come un’analisi politica della deriva della cruenta azione delle Brigate rosse.
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Il cinema civile dei fratelli Taviani trova in quest’opera, attraverso il filtro della Storia, una imprevista predittività rispetto agli avvenimenti dell’Italia coeva.
Erano tempi, infatti, quelli della metà degli anni settanta, che preludevano alla svolta della lotta armata, quale sbocco estremista e senza futuro dell’antagonismo ideologico rispetto ad una situazione economica e sociale molto difficile.
Così, l’apologo dei “Fratelli sublimi” che nel film vagheggiano ai primi dell’Ottocento di sollevare con le armi le masse dei contadini del Sud contro il potere restaurato, finendo invece massacrati, non può non essere letto – anche al di là degli intendimenti degli autori – come un’analisi politica della deriva della cruenta azione delle Brigate rosse.
A sorreggere la riuscita dell’opera, la maiuscola prova di un Mastroianni maturo e consapevole, un valente coro di attori (Bruno Cirino, Laura Betti, Lea Massari) e soprattutto una regia sapiente, attenta ai particolari della costruzione della messa in scena e alla perfetta resa di paesaggi e personaggi.
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