Ricorda molto il Deserto dei Tartari, come impostazione e purezza, il film-documentario Ariaferma di Leonardo di Costanzo, interamente girato in un luogo chiuso e avulso come la prigione. Un luogo su cui tanta letteratura ha scritto e tanto cinema ha rappresentato in maniera più o meno consapevole e originale, dove detenuti espiano la propria pena, spesso in condizioni disumane.
Cosa succederebbe se per un rinvio di un ordine di trasferimento, un manipolo di agenti della polizia penitenziaria capitanati da un ispettore di polizia probo e taciturno, Gaetano Gargiulo (Toni Servillo), dovesse badare a dodici detenuti, di un carcere oramai prossimo alla chiusura?
Per poco tempo, suvvia necessario affinchè la struttura che li possa accogliere sia di nuovo disponibile.
Poco tempo, sì considerando che tra quei detenuti ci sta anche Don Carmine Lagioia (Silvio Orlando), un boss camorrista a fine pena, di quelli silenti, pronti a aizzare le masse nell’ombra, sobillatori di rivolta.
Poco tempo, in cui occorre attendere in una situazione tesa anzi “sospesa”, ove le dinamiche carcerarie divengono quasi rarefatti dialoghi tra i due protagonisti, due attori in stato di grazia dalle pose teatrali, Toni Servillo e Silvio Orlando, magnifici nel loro dramma da camera anzi da galera ibseniano.
Poco tempo, appunto, che diviene quasi infinito, remoto, perso tra le sarde vallate, dentro un ottocentesco carcere in cui le cucine e tutti gli altri servizi sono stati dismessi, dove la direttrice viene inviata ad un'altra destinazione e i pochi agenti rimasti devono cercare di gestire l'imprevista situazione, un tempo saturo in cui si respira un’aria di condivisione, in cui il confine tra giusto e onesto, sfuma e il muro, invalicabile tra carcerati e carcerieri manda all'aria le regole del gioco, creando una palpabile tensione fra i personaggi costretti a vivere precariamente.
Il tempo, lui è protagonista di Ariaferma, che comprime e sintetizza le dinamiche carcerarie (e forse non solo), portando all'evidenza tutta la loro assurdità. Un tempo soggettivo, quasi relativistico, joyciano per dirla con l’Ulisse, dove i protagonisti vivono sospesi in una bolla, ermeticamente chiusi entro i loro sguardi, silenzi, rarefatti in un’aria ferma appunto.
Respirando il comune afflato, i due poli attorno a cui ruota la pellicola, si confrontano in duelli verbali, confronti pacati sul senso della giustizia oggi (Io e te non abbiamo nulla in comune si lascerà sfuggire la silente guardia), permeando di attesa qualcosa che sappiamo benissimo essere indefinito. All’interno di un luogo chiuso, sono più facili le rivolte, scoppiano casi problematici, come quello di Fantaccini (Pietro Giuliano), dall’istinto al suicidio per una rapina finita male, particolarmente “benvoluto” dalla guardia e in fondo anche dalla sua antifrasi.
Si percepisce, sotto una crosta di essenziale prova attoriale, umanità in questa pellicola di grande potenza stilistica, la capacità di prendersi cura del prossimo, anche violando regole, anche andando contro quella dura lex sed lex imprescindibile e disprezzata.
Non solo: la forza delle due ore di Ariaferma sta anche nella coralità, nei volti spigolosi e terrei dei detenuti, nell’equilibrio tra detto e celato, nelle grida che esplodono oltre quelle sbarre invisibili in una permeabilità liquida, un carcere psicologico e mentale, prigione e barriera di tensione latente. E in fondo, dentro quel mondo che conosciamo tutti noi, che viviamo giorno dopo giorno, arrocchiti dentro il nostro pensiero precostituito, tra scetticismo, paura e un bisogno rivoltante di un’umanità sofferta e negata.
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