Ian McKellen e Helen Mirren. Due giganti del cinema/teatro famosi nelle loro interpretazioni (fra i tanti Il signore degli anelli- Gandalf e Il diavolo veste Prada- Miranda) che li hanno resi celebri al grande pubblico.
Che ci fanno insieme in un film di inganni e menzogne?
La parola a Bill Condon, il regista de L’inganno perfetto, che lascia spazio a un duello alla Carnage (nonostante le riprese non siano prepotentemente da dramma da camera alla Ibsen ma più aperte a un passato fatto di guerra e sopraffazioni e un presente complicato e difficile) in cui niente è ciò che sembra e nella quale ogni imbroglio nasconde dietro di se una matassa difficile da districare.
La trama di Inganno perfetto è tutta qui, nella sua semplicità disarmante di due ottuagenari che si incontrano in una chat di incontri, si scoprono, iniziano a piacersi. Peccato che uno dei due, il buon Gandalf- Ian McKellen- Roy Courtnay- non sia non proprio uno stinco di santo in cerca dell’amore perduto ma un truffatore che campa col suo complice, Jim Carter, di investimenti azzardati e veda nel denaro la sua unica fonte “di andrenalina”, un personaggio che gode delle truffe e che quasi le ricerca come fossero la sua ragione di vita. Pertanto quando vede una facile “preda”, Helen Mirren- Betty McLeish, dal cospicuo capitale e dall’ingente eredità, ecco che il falco spicca un volo radente per ghermirla tra le sue spire. Facilitato dalla condizioni di salute della donna (dalle sue presunte crisi ischemiche) e dalla sua abilità frutto di una duplice natura: da una parte vecchietto claudicante indifeso e stordito dagli eventi, timido e assai riservato (che inevitabilmente mostra compassione), e dall’altra essere spietato pronto a uccidere per raggiungere i suoi interessi, Roy si insinua nella vita della ricca ereditiera, nella noiosa borghese casa di campagna dove ben presto, strani figuri iniziano a gravitare attorno.
L’inganno perfetto o The good liar, nonostante le quasi due ore, regge e intriga lo spettatore grazie non tanto a uno sviluppo di una trama in cui ben presto diviene tutto chiaro quanto per un andamento ondivago che fa dei due attori il punto di forza del film. Nell’inganno e nel gioco delle parti tra rapitori e rapiti, con echi di spionaggio e giallo classico, contraccolpi accusatori di un passato distante che torna prepotentemente quanto forzatamente a galla, Mc Kellen e Mirren si scontrano, si amano, gigioneggiano. In altre parole, duettano e duellano, in un ribaltamento di colpi di scena che farebbe contento il Tenente Colombo presente in noi stessi, elegantemente e finemente girato con tanto di giacche, abiti e cappelli anni ’30.
Sfiancati e arrivati al termine di una vendetta gustata freddissima, quasi come se fosse vinavil, a noi spettatori, al termine ci rimane quel retrogusto amarissimo di un redde rationem artefatto dal gioco da camera su cui spicca una luna di dicembre, luna dell'inverno, passero e tigre, pesantezza lieve, che non sappiamo se vedere come paradiso o inferno.
Non resta che andare avanti, in direzione ostinata e contraria all’umano squallore, diretti all’effimero bianco della neve, purtroppo tinto di rosso sangue.
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