Diego Maradona

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Kapadia ci presenta i due volti della vita del più grande calciatore di sempre in un film praticamente già scritto.

di Giorgio Postiglione Giorpost


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lunedì 30 settembre 2019

30 ottobre 1960: in una delle migliaia di baracche di Villa Fiorito, enorme "favela" della periferia di Buenos Aires, arriva Diego, solo per caso nato ad una manciata di chilometri di distanza, nella parte orientale di Lanùs.
Unico svago per i bambini del quartiere è un polveroso campetto di calcio dove il piccolo Dieguito, detto "el pelusa", impara sin dall'età di 8 anni ad avere una non comune confidenza con quella sfera di 25 cm di diametro: la gente del posto capisce immediatamente di essere al cospetto di un talento puro, straordinario.
L' ascesa verso l'olimpo è pressoché inarrestabile, tale da non consentire al (letteralmente) povero Diego di approfondire gli studi ne, tanto meno, gli permette di adattarsi gradualmente alle entrate economiche, spropositate se rapportate al tenore di vita della sua famiglia.
Gioca prima nell'Argentinos Junior, poi al Boca e nella mitica "Bombonera", dunque l'avvento in Europa, al Barcellona: è nata una stella, ed è di prima grandezza.
Nella capitale catalana, tuttavia, comincia a scricchiolare quel castello fatto di sogni e speranze: la fragilità di Diego è evidente e, una volta raggiunto l'obiettivo di sistemare in una vera casa gli amatissimi genitori e il resto degli affetti a lui cari, a Diego non resta molto da fare in una città sconosciuta tra un allenamento e l'altro... Locali notturni, donne, cocaina: è l'inizio della fine? Non per adesso. La stella di Diego è lì, in cielo, ma con l'interruttore ancora spento.

Dopo due stagioni e 3 trofei con il "Barca", a causa di un infortunio e di molteplici polemiche scaturite soprattutto dalla rissa vendicativa con i giocatori dell' Athletic Bilbao, nel Luglio del 1984 Diego viene acquistato dall'unica società che crede ancora pienamente in lui e disposta a pagare il suo fantasmagorico cartellino.
Il riccioluto fuoriclasse arriva a Napoli, una città a lui quasi sconosciuta che gioca nel campionato più duro, difficile e ricco del pianeta: la Serie A; il calciatore firma il contratto a bordo di una barca, brindando con le classiche coppe di champagne insieme al presidente Ferlaino e ad un nugolo di manager, procuratori e banchieri; dopo una corsa forsennata per le strade cittadine, il convoglio di 2 auto (una Ritmo ed una Golf GT) arriva allo Stadio San Paolo per la presentazione alla stampa (prima) ed ai tifosi (poi): centomila persone (un record tutt'oggi imbattuto) si recano allo stadio al costo simbolico di 1000 Lire per vedere il calciatore più forte e famoso del mondo effettuare alcuni palleggi e pronunciare un timido "buonasera Napoli". Finisce l'era di Diego, comincia quella del mito Maradona.

Il nuovo documentario di Asif Kapdia, appassionato di personaggi controversi ma al top nei rispettivi campi, ha un titolo (nella versione italiana e ispanica) che solo apparentemente può sembrare banale: Diego scritto in bianco, Maradona in azzurro; sembra quasi che il regista nato a Londra, indiano d'origine e tifoso del Liverpool abbia voluto marcare una distinzione tra il candore di un ragazzo che aveva comprato una pelliccia ai tempi del Boca perché "sentiva freddo" e l'uomo che poi è diventato, un'icona, un mito assoluto composto da un 51% di genio e dal 49% di sregolatezza.
In un mix di filmini familiari d'epoca (regalati da Diego al cineasta e selezionati tra oltre 500 ore di girato), servizi giornalistici ed interviste televisive storiche, il premio Oscar tende la mano sia ai fan più accaniti del campione -che non sono soltanto Napoletani ed Argentini- che ai suoi più acerrimi detrattori; in un susseguirsi di scene per lo più inedite Maradona si mette totalmente a nudo, raccontandosi in prima persona, prestando la sua voce all'opera in qualità di narratore principale (coadiuvato da personaggi importanti nella sua vita come il manager degli anni '80 e la ex moglie Claudia).
Il tutto viene palesato con estrema naturalezza, specialmente quando El Pide de Oro ricorda allo spettatore i suoi vizi. E' quasi impossibile, a mio avviso, non provare un pizzico di simpatia per un uomo (perché alla fine di quello si tratta) che dice candidamente di amare le donne perché "sono così belle ed eccitanti" e di sniffare la cocaina dalla domenica sera al mercoledì perché "ti fa sentire un Dio", salvo ripulirsi per 3 giorni interi in modo da scendere in campo, la domenica successiva, senza alterazioni.
E lui, Maradona, semi-Dio lo diventa davvero in quelle due estati che hanno segnato per sempre la sua carriera e la percezione degli appassionati di calcio di tutto il globo nei suoi confronti: nel 1986 vince praticamente da solo il Mondiale del Messico, portando l'Argentina sul tetto del mondo con una infinita serie di magie tra le quali il leggendario Gol del Secolo e quello della Mano de Dios, entrambi segnati proprio contro quella Inghilterra che stava "oltraggiando" le Malvinas (le isole Falklands) in un nuovo, ennesimo tentativo di colonizzazione. Già, perché oltre il calciatore, oltre il fantasista, oltre l'atleta dal baricentro basso e la palla incollata al piede sinistro, c'è un uomo che, tra mille vizi ed alcune inimitabili virtù, pensa e riflette anche sulle dinamiche politiche e sociali.

Che Kapadia abbia voluto sottolineare non solo la carriera ma soprattutto la vita personale di Maradona nel suo stretto legame con la città di Napoli è fuori discussione. Forse ha eccessivamente dato risalto ad alcuni aspetti che all'epoca dei fatti hanno segnato la fama della città, enfatizzandone le criticità, cosa che non aggiunge nulla alla storia. Insomma, che Diego Maradona fosse un folle e strabiliante giocoliere alla ricerca del brivido si era capito dai tempi dell'ultimo campionato di Clausura argentino; oltretutto, a Barcellona come a Napoli, tutti sapevano dei suoi problemi con la cocaina, dei legami -forzati, per la verità- con il clan dei Giuliano, del figlio illegittimo, dei Rolex e via discorrendo. Resta, per fortuna, un immenso caleidoscopio di aneddoti e curiosità che "normalizzano" la leggenda, come le infiltrazioni di cortisone nella schiena dolorante, la sua grande umanità quando si trattava di giocare gratis per beneficenza, oppure quando si mostra inconsapevolmente per alcuni interminabili secondi triste e pensieroso ad una festa dove chiaramente non voleva esserci.
Di Diego Armando Maradona si hanno ricordi contrastanti: chi l'ha amato ne conserva la straordinaria leggiadria ed un carisma superlativo in campo; chi l'ha odiato sa bene che se avesse indossato maglie diverse (magari con strisce verticali) oggi ne parlerebbero diversamente.
Ma, al di là delle giuste critiche e degli innumerevoli attestati di stima nei suoi riguardi (Sacchi, Cruijff, Agnelli, Capello, Baggio, Totti, Lineker, Mourinho ecc ecc ecc) , è del tutto evidente che siamo a cospetto di una figura che, piaccia o no, ha fatto e farà sempre parlare di sé; Maradona ha riempito intere pagine di giornale, ha dato lavoro (indirettamente) a decine di giornalisti, ha generato culti religiosi (la Chiesa di Maradona), canzoni -la più famosa quella di Manu Chao-, pellicole a ripetizione (oltre alla presente ricordiamo l'opera di Kusturica) e mediamente una collana all'anno di DVD allegati a riviste sportive e non.
Il ritratto (finale?) di Diego, ma anche di Maradona, è di un ragazzo cresciuto nella miseria, che ha sempre amato la sua famiglia, che ha protetto da tutte le sue vicissitudini umane.
Quell' intervista del 2004 nella TV argentina dove lui, sovrappeso ed in lacrime, si pente dei suoi errori, consegna definitivamente al mondo una leggenda che resterà, ancora per molti anni, cementata nel firmamento del Calcio.
La frase che rimane di questa pellicola è senza dubbio questa: "quando scendo in campo, tutta la vita resta fuori".
Grazie, Diego.

Voto al Film: 7
Voto al Diego uomo: 5
Voto a Maradona: 10

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