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Inseguimenti rocamboleschi in moto, poi in macchina, sparatorie, flashback, esplosioni.
Il regista muscolarizza Lisbeth Salander, senza però mai toglierle la paranormalità multimediale.
Lisbeth Salander infatti mantiene inalterata la sua essenza: eroina femminista del mondo di oggi, molto affascinante dal punto di vista teorico.
È fluida Lisbeth Salander. Lo è fisicamente (i suoi mascheramenti e le identità false), sessualmente ed emotivamente.
Claire Foy ha un viso che squarcia lo schermo ed è una attrice fantastica in un ruolo che parla pochissimo, aumentandone la postura androgina e la fragilità fanciullesca.
Lisbeth Salander e le sue imprese da hacker traumatizzata sono decisamente più comprensibili e digeribili che nel passato, meno introspettive e più concentrate sugli eventi.
Protagonista dunque non è Lisbeth Salander, ma l’intreccio, lei è solo uno degli altri personaggi agiti (per quanto quello principale).
Per farlo il regista sacrifica gli altri personaggi, ma l’impressione è che in queste storie dense di eventi e meccanismi da spiegare bene in due ore, non ci sia spazio per molto altro.
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