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I “figli della mezzanotte” sono i bambini nati il 15 agosto 1947, allo scoccare della mezzanotte: il momento in cui l'India proclamò la propria indipendenza dalla Corona inglese. Tra di loro vi sono anche due neonati di Bombay, Saleem e Shiva, che vengono scambiati volontariamente da un'infermiera colta da un inconsulto e personale moto rivoluzionario, sovvertendone l'ordine stabilito e donando al povero l'esistenza del ricco e viceversa. Ed attraverso la voce narrante di Saleem ripercorriamo la saga trentennale della sua famiglia e le sue tragicomiche vicende contornate di quel realismo magico che lo accomuna agli altri “figli della mezzanotte”, tutti dotati di poteri magici.
Tratto dall'omonimo romanzo, lo stesso autore Salman Rushdie ne condensa le oltre 600 pagine del libro in una sceneggiatura di 2 ore e mezza (forse col termine condensare sono incappato in un eufemismo), smarrendo un po', forse, quella visuale onirica e quel caleidoscopio di personaggi, luoghi e avvenimenti racchiusi nel suo romanzo-fiume. Ma al di là della complessità del testo ad una trasposizione cinematograficamente aderente, rimane la pregevole regia dell'indo-canadese Deepa Mehta che nel contesto ironico e visionario del film non viene meno nel riportare l'incanto e le contraddizioni della sua terra d'origine.
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