ACAB - All Cops Are Bastards

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Un film di Stefano Sollima. Con Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti, Roberta Spagnuolo.
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Poliziesco, durata 112 min. - Italia 2011. - 01 Distribution uscita venerdì 27 gennaio 2012. MYMONETRO ACAB - All Cops Are Bastards * * * - - valutazione media: 3,20 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Niente più che un tentativo Valutazione 2 stelle su cinque

di Sil_Irace


Feedback: 6 | altri commenti e recensioni di Sil_Irace
mercoledì 1 febbraio 2012

 Arrivando alla fine del film “Acab – All Cops are Bastards” si ha come la sensazione di aver assistito ad una sorta di baraonda emozionale un po’ confusa. Va detto che, sia gli attori, sia la regia, sono eccezionali nel cercare di dare un senso più ampio a una rappresentazione della galassia imperfetta della violenza di periferia (prettamente romana) che accompagna l’intera opera.
Anche per questo suo ambito localistico, “Acab” è un film riuscito a metà. Non per colpa delle maestranze, ma, semplicemente, di una sceneggiatura incompleta che mischia troppe storie e troppi generi, troppe disillusioni e troppe vite spezzate da una violenza molte volte troppo esteriore ai personaggi, molto spesso troppo personale per essere assorbita con lucidità dallo spettatore.
Forse “Acab” è semplicemente un film troppo intimo, troppo caratterizzato dalle incapacità famigliari di Mazinga, dall’ardore inconcludente di Cobra, dal disagio esistenziale di Negro, i tre protagonisti, che non fanno altro che cozzare con la realtà di un disinteresse generale dello Stato nei loro confronti, sia in termini privati che pubblici. Essi sono in continua tensione tra ciò che “vorrebbero” fare e ciò che sono “costretti” a fare per mestiere. Ed è grazie a queste tensioni che lo spettatore intravede anche il loro stato di "vittime del Sistema", che essi stessi hanno scelto orgogliosamente, o meno, di servire.
Le figure retoriche spaziano continuamente, senza alcun inquadramento narrativo, il quale ,se non altro, aiuterebbe a capirle con completezza cognitiva. Le metonimie vengono continuamente sovrapposte: la violenza da stadio, la violenza simbolica del politico che promette ma non mantiene, la violenza dello sfratto e quello corrispondente delle occupazioni. L’ingiustizia della società presa come simbolo, scusa e prodotto insieme, di un’emarginazione ben presente anche nei rapporti con i rappresentanti istituzionali.
Anche l’ambientazione vuole la sua parte. Tralasciando le immagini da guerriglia urbana (anche in questo caso la sceneggiatura avrebbe potuto fare molto meglio), le scene s’inquadrano sempre in mezzo ai sobborghi della Capitale, molto spesso all’interno di palazzoni grigi, sfatti, incompleti, anche questi dimenticati dalla collettività. L’orrore dell’impossibilità di assurgere a qualcosa di meglio attanaglia tutti i personaggi, che vivono la propria disillusione relazionale, economica e sociale, aggrappandosi ad uno spirito di corpo, anche questi disilluso, molte volte sfalsato sul piano morale, arrivando a giustificare gli stili tipici delle “squadre della morte” sud-americane. Spirito di corpo che proprio verso la fine sciama, con il tradimento del più giovane del gruppo, che non intende sottostare alla legge della violenza “fai da te”, anche quella cinicamente impensabile e troppo inventata per essere vera. Tutto poi viene mescolato in nome della fluidità narrativa. I pezzi s’incastrano con evidenti difficoltà, senza mai riuscire a dare un’idea definitiva sul messaggio finale che un lungometraggio del genere dovrebbe almeno cercare di riassumere.
“Acab” quindi rappresenta qualcosa di intimamente autoreferenziale, di squisitamente feticistico e stancamente sensuale che ha, forse, l’unico merito di riportare umana la figura del “celerino”, smascherandolo dell’elmo d’ordinanza e del manganello, ma, ennesima violenza, affibbiandogli ambiti politici che non gli appartengono poi un granché.
Una visione d’ordine che ha il pregio di non giudicare il lato professionale dei tre protagonisti, poiché la vita è troppo potente anche per loro. Insomma, uno spaccato troppo idealisticamente irrilevante per essere consapevole della propria parziale autenticità.

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