Ci voleva la suadente grazia documentaristica di Werner Herzog per farci compiere un viaggio di 30.000 anni nel nostro passato. Un viaggio nella valle dell’Ardèche per giungere al tempo in cui convivevano lupi, bisonti, mammut, orsi, rinoceronti, renne, cavalli, leoni, ibex. E uomini. Siamo trasportati nell’era del Paleolitico immergendoci con l’occhio privilegiato della telecamera nella grotta Chauvet, scoperta per caso nel 1994 dallo speleologo Jean-Marie Chauvet insieme a Éliette Brunel e Christian Hillaire.
Al cineasta tedesco è stato concesso un permesso speciale per filmare nel giro di pochi giorni l’interno di quella che è una vera e propria capsula del tempo. L’occhio indagatore di Werner Herzog si accompagna a quello di una piccola squadra di scienziati, archeologi, storici dell’arte, paleontologi lungo una stretta passerella in metallo che si snoda fra le stanze della Grotta Chauvet, preservata dai respiri dei turisti che negli anni hanno invece provocato la formazione di muffe nelle Grotte di Lascaux.
In un ambiente illuminato soltanto dalle lampade portatili, ci lasciamo affascinare da dipinti animaleschi che uomini di trecento secoli fa disegnarono sulle pareti. Segni neri che in molti casi si sovrappongono gli uni agli altri in un’illusione di movimento da protocinema: siamo come spettatori racchiusi entro il confine buio di una sala cinematografica. Spettatori di un’animazione che prese vita in una sorta di caverna Platonica: oggi mappata millimetro per millimetro con lo scanner laser, un tempo oscuro luogo ove si materializzavano le visioni di protoartisti. Alla sola luce della fiamma le ombre furono la pima forma di rappresentazione e nel silenzio della grotta i battiti del cuore erano l’unica colonna sonora di momenti a forte intensità spirituale: figure di animali s’imprimevano sulle pareti rocciose, dando compimento materiale alla comprensione del mondo attraverso l’arte.
L’immagine pittorica iscrive la memoria dell’uomo negli oggetti (siano essi pareti, ossa, pezzi di legno) in un legame indissolubile col paesaggio esterno. Rappresentazioni figurative che altri uomini continuarono a disegnare all’interno della Grotta Chauvet anche alcune migliaia di anni più tardi; come se la mano di quegli uomini fosse parte di un grande spirito che descrive la profonda gamma emotiva di un homo spiritualis in continuo divenire.
In quel cinematografo ante litteram v’è graffita una sola componente umana: si tratta di attributi sessuali femminili ghermiti dall’abbraccio di un bisonte, primigenio substrato del Minotauro di Pablo Picasso. Ecco emergere due concetti che marcano l’uomo sin dal Paleolitico: la fluidità, legata alle categorie con cui rappresentiamo il mondo (uomo, donna, alberi, cavalli, etc.), che sono in connessione fra loro e possono trasformarsi; la permeabilità, che fa svanire le barriere tra mondo reale e mondo degli spiriti, consentendo a quelle buie pareti di parlarci.
Quei dipinti potevano parlare allora, e ancora lo fanno adesso: sono memorie di sogni dimenticati, che il montaggio di Herzog ci regala nel finale del documentario in dosate lente panoramiche sulla superficie delle rocce, mentre il suono di un flauto e angeliche voci di donna ci immergono nel mito dell’umanità. Ed è come se tantissimi occhi ci guardassero muti mentre riscopriamo quell’ancestrale forma di comunicazione visuale che travalica persino la potenza della parola. Mentre guardiamo nell’abisso del tempo per continuare a sognare.
[+] lascia un commento a andrea alesci »
[ - ] lascia un commento a andrea alesci »
|