Mauro Lanari e Orietta Anibaldi
“Michael Clayton” è l’unico “legal-thriller” metafisico a noi noto. Il regista Gilroy lavora incessantemente per sottrazione, cavandone fuori un’opera sommessa, dimessa, disadorna, spoglia al limite dell’underground. Un po’ Bresson e un po’ Michelangelo, per volare alti. Di Bresson c’è quell’insistere sulle scene madri sempre fuori inquadratura e fuori sceneggiatura, come se il canovaccio da rappresentare fosse ormai logoro e la realtà della natura maltrattasse i personaggi umani trascurandoli, non ponendoli al centro né dell’attenzione né dell’immagine. Noi non siamo i protagonisti di nulla. Invece di Michelangelo c’è l’esatto contrario: siamo proprio noi i protagonisti, antropocentricamente e senza alcun rimando interessante al contesto ambientale. Noi, infatti, siamo esseri autocoscienti e dunque gl'unici ad avere consapevolezza dello sfascio generalizzato.
Il film è quadripartito: 4 giorni, 3 cavalli e un’esplosione del cavallo-macchina. I soliti rinvii biblici al veggente di Patmos e alla sua apocalittica quadri-rivelazione: ma in questo caso a cosa allude? Non c’è vittoria in Clayton, il suo essere Michael, “Michele”=”Chi come Dio?” riceve una risposta ancora negativa. La rivelazione personale ricevuta da Clooney è che a lui, in quanto rappresentante d’una legge solo umana, non è consentito il potere d’una redenzione retroattiva in favore di tutte le vittime che hanno già lastricato la Storia. Infatti il bisogno d’una salvezza radicale va spinto “sino ad arrivare all’idea di un assetto del mondo dal quale sarebbe eliminata non solo la sofferenza esistente, ma revocata anche quella irrevocabilmente trascorsa” (Adorno, “Dialettica negativa” [1966, 2004], p. 361).
È stato detto e scritto che la quadrilogia di Gilroy s’inserisce nel filone inaugurato da “Memento”, l’interrogarsi sulla fragilità della memoria e sul nostro senso d’identità. Le date di distribuzione possono servire come conferma: il film di Nolan risale al 2000, mentre “The Bourne Identity” è di appena due anni dopo. Eppure Gilroy punta a smentire proprio la tesi di “Memento”, la tesi secondo cui le amnesie autobiografiche anterograde sono causate da un trauma specifico e non aspecifico, e di tipo organico invece che psichico. Anche Fincher, nella prima parte di “Fight Club” (1999), mostra solo gruppi di Auto Mutuo Aiuto per difficoltà d’ordine biologico, quando invece i gruppi AMA più numerosi sono quelli per disagio esistenziale. Insomma, al volgere del terzo millennio Gilroy lascia intendere di voler reindirizzare la filosofia del soggetto come un nuovo Forman tornato per aggiornare la denuncia dell’ideologia di psichiatri e neuroscienziati. Ma il suo capovolgimento rispetto a Nolan è ancora più profondo. Infatti, dopo aver ricondotto l’eziopatogenesi della mente al vissuto personale e impersonale, egli sostiene pure che la soluzione delle singole storie individuali non si dà in alcun modo proprio sul piano gnoseologico e localistico, bensì su quello ben più drastico della Storia che necessita d’essere rimpiazzata ontologicamente e globalmente.
Ancor prima del totale sfascio della componente non profilmica in “Michael Clayton”, già nella trilogia di Jason Bourne si assiste a un crescendo nel degrado cromatico della fotografia, che regredisce a una desaturazione cromatica da pellicola degli anni ’70. Potrebbe essere un semplice tributo del regista Greengrass al film di riferimento “Il giorno dello sciacallo” (1975), ma potrebbe anche simboleggiare l’indagine a ritroso nel passato del protagonista alla ricerca della sua identità. Però il problema della filosofia del soggetto non consiste nella prospettiva né di questo primo Gilroy né del Nolan di “Memento”. Che un trauma sia aspecifico e sia anche psichico, non esclude affatto che esso sia comunque frutto d’un condizionamento bioculturale che s’impone rispetto a ogni benigno tentativo d'autodeterminazione. Se il capitano David Webb scopre d’essere diventato un killer implacabile intenzionalmente, deliberatamente, coscientemente, significa solo che egli non ha scavato ancora più a fondo nell’individuazione del retaggio operato dal bagaglio dei fattori genetici e psicopedagogici che, per concausa interazionistica, lo hanno forgiato proprio con quel preciso carattere, quella personalità, quell’inevitabile propensione alla pseudo-scelta omicida. Egli è una MACCHINA assassina nel senso più pieno della parola. La vera identità di Jason Bourne è (Ja)son Bo(u)rn(e), il “figlio/prodotto della sua nascita”. Egli è il capitano David(e) contro il Golia delle “monolitiche” leggi cosmiche della Storia, le quali hanno già deciso, deliberato, stabilito per lui, come già intuito da Omero che attribuiva le sorti dei propri personaggi alla fatale arbitrarietà del destino, alla destinale aleatorietà del fato. L’autodeterminazione è una qualità d’esclusiva appartenenza a una condizione divina. Ma, appunto, “chi come Dio”, “Michael”?
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