|
Si forma con lentezza, con inesorabile insondabile lentezza, ma alla fine eccola lì che appare chiara e visibile: la crepa. L’incrinatura che segna il punto di rottura, la fenditura che muta irreparabilmente lo stato delle cose.
Quel sottile segno che il regista Gregory Hoblit indaga con misurata abilità sin dalle prime inquadrature di “Fracture” (titolo originale del “Caso di Thomas Crawford”), spezzando i nomi dei titoli di testa come evidenza di un percorso che marca il passo dell’intera opera.
Tutto nella pellicola ha a che fare con le fratture: l’azienda di Thomas Crawford (Anthony Hopkins) si occupa di indagare le fratture dei materiali per gli aerei; a rompersi è il matrimonio di Tom con la moglie Jennifer (Embeth Davidtz); si spezza la vita proprio di Jennifer; si disintegra la sua relazione con l’agente Nunally (e poi la vita di quest’ultimo con il suo suicidio); va in mille pezzi la carriera dell’avvocato Willy Beachum (Ryan Gosling), tagliato fuori dallo studio associato Wooton Sims e dal nascente legame con Nikki Gardner (Rosamund Pike); si frantuma alla fine un caso che pareva infrangibile.
“Il caso Thomas Crawford” è un sapiente giallo nel quale ogni cosa si sgretola, andando in polvere nel corso di un’azione che si svolge tra due fuochi: Tom/Hopkins vs Willy/Gosling. Sono i loro dialoghi a reggere l’architettura di una storia che si muove nei solchi di una sotterranea frattura impercettibilmente sempre più larga.
Il confronto serrato fra due intelligenze chiamate a misurarsi all’interno di un intrigante gioco a due, con Ryan Gosling / Willy Beachum audacemente sicuro delle sue capacità di vincente e Anthony Hopkins / Thomas Crawford investito di una perfida sottile arguzia che ricorda il famoso Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti.
L’astuzia di un piano che va calibrando il proprio spessore dentro l’aula del tribunale e nella precisa misura di ogni parola, ogni silenzio, ogni gesto ordito dal signor Crawford. L’esattezza del suo agire si muove conformemente alla legittimità della legge, disegnando una trama che trasforma l’evidenza di una colpa presunta in un’inattaccabile innocenza.
La sceneggiatura di Daniel Pyne (White Sands, Ogni maledetta domenica, The Manchurian Candidate) è la perfetta architrave di un film che per genialità trova un degno termine di paragone nella scrittura di Christopher McQuarrie per I soliti sospetti (Bryan Singer, 1995), tratteggiando un disegno che porta in scena frammenti letterari (l’accenno a una poesia di Theodor Geisel e ad un verso di Lewis Carroll), espunti biblici, dialoghi sempre puntualmente pesati e un colpo di scena finale da maestro.
Un disegno raffinato nelle mani di Gregory Hoblit, che ben dirige il corpo di attori ruotanti attorno ai due fulcri Hopkins/Gosling, impeccabili dentro a un meccanismo intricato nel quale ogni dettaglio è calcolato e tutto funziona alla perfezione, come le biglie nei marchingegni costruiti da Thomas Crawford con abilità sopraffina (nella realtà opere dell’artista olandese Mark Bischof) e propulsori del film sin dalla prima inquadratura.
Eppure anche il più perfetto dei meccanismi può incrinarsi e rompersi. Così, nel piano di Crawford si produce quella frattura resa invisibile dal suo altezzoso desiderio di controllo: l’armatura diventa arma e un nuovo giudizio può spalancare sotto i suoi piedi un’immensa voragine. In un cerchio giottesco che fa del “Caso di Thomas Crawford” una penetrante riflessione sugli ideali di giustizia: siano essi manipolati nei cardini del Sistema Giudiziario (vedi la strategia di Thomas Crawford e en passant l’operato di colossi come Wooton Sims) oppure perseguiti a oltranza come fa l’avvocato Willy Beachum, alla fine non più soltanto un vincente ma un esemplare vincitore.
[+] lascia un commento a andrea alesci »
[ - ] lascia un commento a andrea alesci »
|