celia
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sabato 6 luglio 2019
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un romand à la cantet
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Il Vincent di Cantet pare in tutto un gemello del Jean-Claude Romand di Carrère, destinato a mentire non per orgoglio ma per incapacità di adattamento. Il suo "Ho paura di deludere", emblematico della personalità e della pellicola, esprime molto più di una crisi in ambito lavorativo, che pure viene descritta nei suoi effetti più devianti.
L'esito di questa fuga da se stesso sarà, fortunatamente e fortunosamente, diverso da quello assai tragico per che si ebbe nel caso di Romand. In bilico tra monito ed osservazione rassegnata della realtà, questo è un film con qualcosa da dire, ed anche una carezza ai deboli di ogni sorta.
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antoniobianchi
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mercoledì 18 luglio 2018
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inquietudine al franare di un paradigma
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Questo è in realtà un commento alla recensione di guidobaldo maria riccardelli, che ho molto apprezzato.
Questo film è stato un incontro sconvolgente, nel 2002.
I presagi dell'enorme frana in cui siamo stati coinvolti complessivamente e per quel che mi riguarda anche professionalmente, personalmente, erano lì, nella vicenda di Vincent.
Alcuni commenti che qui trovo sembrano fermarsi alla superficie, guardare da lontano.
Ci sono le frodi di Vincent che colpiscono questi commentatori, il suo mentire pervasivo, ma non si riesce a cogliere, appena più in profondità, la ricerca di questo uomo. Cosa cerca? Quanto è profonda la sua inquietudine?
Trovo invece nella sua recensione questa lettura.
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Questo è in realtà un commento alla recensione di guidobaldo maria riccardelli, che ho molto apprezzato.
Questo film è stato un incontro sconvolgente, nel 2002.
I presagi dell'enorme frana in cui siamo stati coinvolti complessivamente e per quel che mi riguarda anche professionalmente, personalmente, erano lì, nella vicenda di Vincent.
Alcuni commenti che qui trovo sembrano fermarsi alla superficie, guardare da lontano.
Ci sono le frodi di Vincent che colpiscono questi commentatori, il suo mentire pervasivo, ma non si riesce a cogliere, appena più in profondità, la ricerca di questo uomo. Cosa cerca? Quanto è profonda la sua inquietudine?
Trovo invece nella sua recensione questa lettura.
Uno sguardo profondo in cui sento di poter stare.
Ad ascoltare.
Ad ascoltarla.
Grazie.
Profondità che trovo poi anche in altre sue recensioni, in particolare quella su Il figlio dei fratelli Dardenne.
La scena conclusiva del colloquio, che lei dice perfettamente incastrata, ho sempre però trovato devastante.
Il volto di Vincent atterrito, ripiegato nelle vuote aspettative del padre, di ciò che il padre rappresenta, prigioniero di un'immagine che non è riuscito ad abbandonare. E' lì, sconfitto, mentre gli dicono che il suo tempo verrà assorbito di nuovo completamente da ambizioni tristi, presentate però come grandi, sfidanti, degne di essere vissute.
Davanti a sè ha solo l'attesa della morte.
Di cui il colloquio sembra essere un annuncio dilazionato, ma non meno spaventoso.
Chissà se leggerà questo mio commento, mi piacerebbe sentire ancora un suo pensiero su questa chiusura scelta da Cantet.
Cosa dice questa chiusura al nostro mondo malato, crollato nel 2008, ma che ancora si inganna dicendo "ma io non ho paura", "ci sarà la ripresa, i consumi riprenderanno", "usciremo dal tunnel della crisi".
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stefano73
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mercoledì 1 marzo 2017
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perde il lavoro...e la credibilità
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Vincent finge e a poco a poco riconosce di perdere la famiglia e le amicizie.
Comincia a rendersi conto che la fiducia e la credibilità di cui godeva comincia a crollare di fronte alle sue bugie e ai suoi raggiri.
Buona interpretazione anche se il finale poteva essere meglio elaborato.
Ambientato tra la Francia e la Svizzera.
Film europeo ben fatto ,senza urla, pianti e esagerazioni.
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guidobaldo maria riccardelli
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venerdì 15 luglio 2016
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riappropriarsi del tempo
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Ben lontano dal trattare il tema del lavoro in maniera diretta ed esplicita, come fatto nel precedente, troppo didascalico e scolastico, Ressources humaines (1999), Laurent Cantet affronta qui il tema aggredendolo con maggiore delicatezza e con occhio più raffinato, mettendo in scena un'opera di grande spessore.
La necessità di fare del tempo un uso personale, in ottica di un proprio arricchimento come individuo, guida Vincent, sempre più deciso a concedersi ciò che gli obblighi sociali gli avevano tolto durante tutta la sua esistenza: ritornando all'origine delle cose, immergendosi nel profondo flusso del corso degli eventi naturali, arriva ad un riavvicinamento sempre progressivo al proprio io, violentato in anni ed anni di recitazione forzata.
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Ben lontano dal trattare il tema del lavoro in maniera diretta ed esplicita, come fatto nel precedente, troppo didascalico e scolastico, Ressources humaines (1999), Laurent Cantet affronta qui il tema aggredendolo con maggiore delicatezza e con occhio più raffinato, mettendo in scena un'opera di grande spessore.
La necessità di fare del tempo un uso personale, in ottica di un proprio arricchimento come individuo, guida Vincent, sempre più deciso a concedersi ciò che gli obblighi sociali gli avevano tolto durante tutta la sua esistenza: ritornando all'origine delle cose, immergendosi nel profondo flusso del corso degli eventi naturali, arriva ad un riavvicinamento sempre progressivo al proprio io, violentato in anni ed anni di recitazione forzata. Non totalmente guarito da questa tendenza, sente però il bisogno di riempire piccoli spazi di vita con declamazioni mnemoniche di formulette aziendali, ricordo di un passato che vuole essere dimenticato. Si vedranno raggiri, scorciatoie, ma non si tratta di ciò, anzi: pur nel torbido delle sue azioni, Vincent troverà al contrario spalle che mai aveva incontrato, sentimenti mai sperimentati prima, come l'amicizia disinteressata, i dialoghi sciolti, per nulla compressi in logiche professionali.
Si confondono e si ribaltano così il bene ed il male, in un pregevole corto circuito costruito ottimamente, capace di palesare l'ipocrisia della società contemporanea, pateticamente ancorata a teoremi vuoti e di facciata.
Lo stesso finale segue il principio succitato, incastrandosi perfettamente nell'umore del lungometraggio.
Appoggiata da una regia equilibrata e fotografata con grande cura, si configura come pellicola visionaria ed anticonformista, pur nell'apparente semplicità all'occhio dello spettatore distratto e superficiale.
Superbo Aurélien Recoing, adatta la scelta dei volti per i diversi ruoli, in un'ennesima dimostrazione della grande caratura dell'opera.
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eugenio
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mercoledì 20 giugno 2012
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il neorealismo moderno: menzogna e verità
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L’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira. Un famoso film del periodo d’oro di Woody Allen, Ombre e nebbia, già dagli anni 90, riprendendo tematiche espressioniste, aveva enfatizzato il male di vivere dell’uomo nella società moderna, male che, a detta del regista poteva essere mitigato attraverso la creazione di un “muro” nei confronti della realtà, colpevole di escludere il mite protagonista da progetti divini sconosciuti. Siamo nel 2012 e sembra non essere cambiato nulla: la vita viene affrontata ma pare quasi che l’individuo, privo di necessario coraggio, autodeterminazione e costanza, venga schiacciato da essa in modo ineluttabile.
Cantet nel 2001 aveva già percepito un sentore amaro, una predizione di quella che sarebbe divenuta una crisi non solo economica ma anche e soprattutto umana, fautrice di disgrazie e terribilmente indelebile.
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L’uomo ha bisogno di illusioni come dell’aria che respira. Un famoso film del periodo d’oro di Woody Allen, Ombre e nebbia, già dagli anni 90, riprendendo tematiche espressioniste, aveva enfatizzato il male di vivere dell’uomo nella società moderna, male che, a detta del regista poteva essere mitigato attraverso la creazione di un “muro” nei confronti della realtà, colpevole di escludere il mite protagonista da progetti divini sconosciuti. Siamo nel 2012 e sembra non essere cambiato nulla: la vita viene affrontata ma pare quasi che l’individuo, privo di necessario coraggio, autodeterminazione e costanza, venga schiacciato da essa in modo ineluttabile.
Cantet nel 2001 aveva già percepito un sentore amaro, una predizione di quella che sarebbe divenuta una crisi non solo economica ma anche e soprattutto umana, fautrice di disgrazie e terribilmente indelebile. Il contesto in cui realizza questa pellicola è la Francia perbenista degli ambienti borghesi,benestanti, dei ricchi manager che sembrano all’oscuro della minaccia incombente, impegnati nei loro lunghi viaggi d’affari che spesso li portano ad allontanarsi dalla famiglia, forse anche volontariamente E’ il caso di Vincent, protagonista de A tempo pieno che sin dalle prime inquadrature ci viene presentato come un bravo padre di famiglia, tollerante con la moglie, paziente coi figli dalla rosea carriera professionale all’ONU. Ma con un problema di fondo non trascurabile: tutta la sua esistenza lavorativa è un’enorme pupazzata, per dirla alla Pirandello, una sapiente mascherata condotta allo scopo di nascondere ai propri cari ma soprattutto a sé stesso la perdita del posto di lavoro, un’umiliazione così forte che lo spinge a scappare, a fuggire dalla realtà, ricercando per istinto quegli ambienti da cui è stato scacciato (vedi l'intensa scena con una telecamera ad altezza del viso di Vincent che ne ritrae le mille sfumature, ivi comprese la tristezza che si esprime in disperata rassegnazione) senza pietà. Distante da casa rifiutando il sostegno di familiari e amici, Vincent imbastisce una fitta rete di menzogne, sfruttando la sua fama di famoso manager bancario, per proporre redditizi investimenti (almeno per le sue tasche- non si farà scrupolo di farsi prestare dal padre duecentomila franchi per la caparra di una casa a Ginevra) ad amici e conoscenti. Un giano bifronte che dorme in macchina nei parcheggi degli hotel la notte e tratta di affari elegante e ben vestito di giorno, di città in città, per poi tornare,con la paga di Giuda a casa facendo regali al figlio adolescente e intrattenendo algidi rapporti con la moglie. Ma si sa che la corda troppo tirata, tende a spezzarsi: citando Sciascia si puo’ essere più furbo di un altro ma non di tutti gli altri….
La costruzione analitica della crisi di un uomo che da un giorno all’altro vede svanire ogni certezza, è qui trattata dal cineasta francese con degna attenzione e rigore. La tematica della perdita del posto di lavoro,estremamente delicata e abusata sembra qui assumere una valenza drammaturgica ed esemplare: Vincent è l’uomo nato per lavorare che necessita di questo come mezzo per dimostrare la propria dignità, il sentirsi vivo al mondo pur con una grave perdita: l’incapacità di immaginare un futuro. L’antifrasi del titolo ben regge come sintomo di un’occupazione perduta che la società spesso finge di non vedere.Da una storia vera, pur un con qualche perdita di stile nel finale, meritato Leone d’oro al Festival di Venezia 2001.
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giugy3000
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lunedì 25 ottobre 2010
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mentire come mestiere
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Mentire tutti i giorni, a tempo pieno.E' il nuovo "lavoro" di Vincent che inspiegabilmente sceglie di nascondere il suo licenziamento alla moglie e ai tre figli per costruirsi una vita fatta di rischi, di bugie, di frodi, di inganni e di raggiri anche agli amici più fidati. Vincent non risparmia nessuno nel suo vortice di menzogne, nemmeno il fidato padre a cui chiede un ingente somma per una casa in affitto per trasferirsi nel suo nuovo posto di lavoro, che ovviamente non esiste.
Vincent non sceglie la vita più semplice e più dignitosa per affrontare questo guaio lavorativo, ma anzi si getta in un famigerato ciclone d'eventi che lo porteranno a sentirsi poi scoperto e senza alibi come un delinquente, cosa che volendo o non volendo nel frattempo è davvero diventato.
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Mentire tutti i giorni, a tempo pieno.E' il nuovo "lavoro" di Vincent che inspiegabilmente sceglie di nascondere il suo licenziamento alla moglie e ai tre figli per costruirsi una vita fatta di rischi, di bugie, di frodi, di inganni e di raggiri anche agli amici più fidati. Vincent non risparmia nessuno nel suo vortice di menzogne, nemmeno il fidato padre a cui chiede un ingente somma per una casa in affitto per trasferirsi nel suo nuovo posto di lavoro, che ovviamente non esiste.
Vincent non sceglie la vita più semplice e più dignitosa per affrontare questo guaio lavorativo, ma anzi si getta in un famigerato ciclone d'eventi che lo porteranno a sentirsi poi scoperto e senza alibi come un delinquente, cosa che volendo o non volendo nel frattempo è davvero diventato.
Che significato dare a questo Leone d'Oro a Venezia del 2001?La tematica del "fingo di avere ancora un lavoro così continuerò a non far mancare nulla alla mia famiglia" sarà in seguito rirpesa in moltissimi film, come ad esempio nel più recente "Giorni e nuvole" di Soldini. ma qui il lavoro è l'ultima pedina di un gioco quasi macabro e sinistro che l'eccellente protagonista mette in moto COSCIENTE di ciò che sta per fare ma che non sa quando e se potrà smettere. Per tutto il film lo spettatore sospetta qualcosa di terribile, che avvenga l'orripilante colpo di scena di un suicidio o di un omicidio (da brividi la scena in cui Vincent perde la moglie nella neve)ma alla fine niente, niente di niente. Vincent ci suscita paura e terrore in ogni scena, ma alla fine, scoperto da tutti e impossibilitato a negare l'evidenza, sceglierà di restituirsi dal labirinto lavorativo a cui aveva cercato inutilmente la fuga più semplice.
Leggerei questo grido d'aiuto di un protagonista macchinoso e crudele ma che alla fine è pregnante di un gran senso umano, come l'ennesimo appello al mondo sociale del lavoro d'oggi, dove l'alienazione del lavoro, per dirla alla Marx, tocca l'apice della sua consistenza. L'uomo lavora per vivere o vive per lavorare?Lavora perchè ama ciò che fa o solo perchè gli serve per l'appunto un impiego "a tempo pieno"?Vincent è solo l'esempio massimo di quello che siamo un po' tutti almeno in uno stadio della vita, ambiziosi come pochi, desiderosi di accappararsi la posizione migliore nell'azienda, avere per parafrase una delle ultime frasi del film, l'entusiasmo per andare avanti ogni giorno. Quando tutto ciò viene a mancare ci sentiamo degli zeri, dei falliti, non perchè lo siamo realmente, ma perchè il mondo là fuori ce lo fa credere. Quando alla fine il protagonista sceglie di tornare a fare colloqui, a ritornare dentro le regole che per 7 mesi aveva rinnegato, la sua faccia è impassibile, le sue orecche poco attente a ciò che gli viene insegnato: sa solo che si sentirà di nuovo in gabbia in un modo o nell'altro e che mai più nella vita avrà la possibilità di essersi interamente scoperto e conosciuto come in quei mesi di lunghe bugie. Nelle menzogne Vincent aveva costruito la più ideale delle sue verità, il migliore dei mondi possibili, si era inventato una carica come consigliere dell'Onu per l'appunto, non di commesso in un negozio Louis Vuitton o autista di macchine di lusso. La storia di un uomo che si è perso, forse una storia un po' malata, ma senza alcun ombra di dubbio realmente esistita e purtroppo, terminata assai peggio.
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bru
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domenica 5 ottobre 2008
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senza vittoria!
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Non è vero che ha vinto il Leone d'oro a Venezia 2001...
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