I film di Ciprì e Maresco sono in bianco e nero, e così pure i giudizi su di essi: o li ami o ti disgustano, bianco o nero. Difficile trovare una via di mezzo.
Totò che visse due volte è composto da tre episodi: il primo racconta l'esistenza miserabile di Paletta, segnata dalle persecuzioni dei compaesani e dalla frustrazione sessuale; il secondo la storia d'amore fra due grotteschi pederasti; il terzo è un'originale rilettura del personaggio di Gesù, che fa risorgere Lazzaro dall'acido in cui un boss mafioso l'aveva fatto sciogliere. Sullo sfondo una Sicilia sprofondata nel degrado, in cui nulla si sottrae allo schifo. Il mondo di Ciprì e Maresco è popolato da un'umanità mostruosa, ridotta alle proprie pulsioni elementari e capace di soddisfarle soltanto in modo perverso (le uniche donne presenti sono vecchie o prostitute, e per giunta interpretate da uomini). Non c'è personaggio che non sia squallido, e non c'è inquadratura, non c'è dialogo, non c'è gioco di luce (semplicemente magistrale la fotografia) che non sottolinei impietosamente lo squallore, amplificandolo e distorcendolo fino alla farsa. Un'umanità così perduta che anche il Gesù-Totò, profeta quanto mai riluttante, dispera di poterla redimere. Un Gesù che rifiuta ai fedeli il Discorso della Montagna perché non c'è spazio per alcuna beatitudine, non c'è riscatto possibile. Gli ultimi resteranno gli ultimi. Anche restituire la vita è un'impresa ridicola, se la vita è irrimediabilmente sfigurata.
Un film estremo, e allo stesso tempo innocente nella sua oscenità (un esempio per tutti: la sequenza rallentata in cui lo scemo del villaggio si accoppia con la statua della Vergine), che regala alcune scene memorabili a chi apprezza lo stile eterodosso degli autori. Per tutti gli altri può essere difficile da digerire. Ma bastano i primi cinque minuti per capire a quale categoria si appartiene.
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