carloalberto
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sabato 19 giugno 2021
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tra positivismo e poesia
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La storiella dello zio d’america, declinata in diversi modi, dal motto scherzoso alla frase proverbiale, dai tre protagonisti, è il filo conduttore che attraversa e lega le loro tre vite, che, sebbene scorrano parallelamente, si incrociano, tuttavia, a tratti, per poi dividersi e prendere ognuna la propria strada. Come in un esperimento i personaggi sono raffrontati a cavie di laboratorio per dimostrare l’esattezza dell’analisi filosofica fondata sul biologismo di Laborit, che, partecipando al film come sé stesso, espone le proprie teorie di persona o attraverso la voce fuori campo, a commento delle sequenze già viste e riproposte una seconda volta per asseverare i suoi postulati.
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La storiella dello zio d’america, declinata in diversi modi, dal motto scherzoso alla frase proverbiale, dai tre protagonisti, è il filo conduttore che attraversa e lega le loro tre vite, che, sebbene scorrano parallelamente, si incrociano, tuttavia, a tratti, per poi dividersi e prendere ognuna la propria strada. Come in un esperimento i personaggi sono raffrontati a cavie di laboratorio per dimostrare l’esattezza dell’analisi filosofica fondata sul biologismo di Laborit, che, partecipando al film come sé stesso, espone le proprie teorie di persona o attraverso la voce fuori campo, a commento delle sequenze già viste e riproposte una seconda volta per asseverare i suoi postulati. Sembrerebbe, di primo acchito, una sorta di documentario scientifico sulla natura umana, simile nelle strategie di difesa, dall’aggressività inconsulta alla fuga, a quella degli animali, ma c’è qualcosa in più che cambia la prospettiva dello spettatore trasportandola nell’Olimpo dell’immaginario collettivo del mondo del cinema. Così i protagonisti si sdoppiano nei loro idoli di celluloide, assumendo, nei momenti cruciali e più drammatici della loro esistenza, i toni, la mimica facciale e la gestualità di volta in volta di Jean Gabin o di Jean Marais, questi ultimi colti mentre interpretano i loro personaggi in altri film, in altre storie rese immortali dal cinema.
Resnais, utilizzando materiali e prospettive differenti, assembla un collage che si offre ad una lettura su più piani stratificati e comunicanti tra di loro, lasciando allo spettatore il compito di una sintesi interpretativa personale traendone ognuno i propri significati.
Giustapponendo, nel montaggio artistico, il colore del film, di cui è autore, al bianco e nero dei film di Gabin e Marais, il passato dei suoi personaggi al loro presente, l’immagine documentaristica delle cavie in gabbia a quella surrealista dei protagonisti con la testa da topo, gli interpreti del suo film e quelli dei film da cineteca, Resnais giunge alla sovrapposizione mentale delle immagini e dei piani di lettura, con continue e simboliche incursioni del fantastico nel reale e viceversa, che confluiscono in un flusso di pensieri e di emozioni che disorienta ed al contempo coinvolge lo spettatore nelle vicende dei suoi personaggi.
Il risultato della contaminazione iconografia e dei livelli di coscienza, da quello della obiettività assoluta, dell’esperimento scientifico e delle tesi declamate con sicurezza da Laborit, a quello subliminale dell’identificazione con gli eroi dell’infanzia e dei ricordi della prima adolescenza, assopiti nell’inconscio, che riemergono trasfigurati da una elaborazione che si adegua al divenire del momento presente, è sorprendente e straordinario è l’effetto filmico che ne consegue.
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m.d.c
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mercoledì 16 ottobre 2013
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resnais e il tempo che non torna
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Tre vite parallele che si sfiorano e incontrano(nel senso meno deflagrante del termine) legate dal filo conduttore scientificamente calcolato, e un pò pedante, delle teorie dello scienzato H.Laborit, sorta di deus ex machina dei destini dei personaggi. Resnais, al suo ottavo film molto elogiato, prova ancora a mischiare le carte di una narrazione controcorrente, e narrativamente sperimentale, ricorrendo al suo consueto discorso per immagini ( e sulla memoria) solo a tratti, lasciando uno spazio meno soffocato alla drammaturgia e alle vicende dei personaggi. Se la narrazione, come di consueto per l'autore di Hiroshima, nella prima parte procede per strappi e suggestioni visive, nella seconda sembra assecondare delle cadenze meno esasperate che lasciano spazio alla storia che ricompone i frammenti narritivi del film, dando vita a un quadro drammaturgico sospeso tra la forza dei frammenti visivi e le cadenze del melodramma, tra le trovate narrative e le ellissi visionarie.
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Tre vite parallele che si sfiorano e incontrano(nel senso meno deflagrante del termine) legate dal filo conduttore scientificamente calcolato, e un pò pedante, delle teorie dello scienzato H.Laborit, sorta di deus ex machina dei destini dei personaggi. Resnais, al suo ottavo film molto elogiato, prova ancora a mischiare le carte di una narrazione controcorrente, e narrativamente sperimentale, ricorrendo al suo consueto discorso per immagini ( e sulla memoria) solo a tratti, lasciando uno spazio meno soffocato alla drammaturgia e alle vicende dei personaggi. Se la narrazione, come di consueto per l'autore di Hiroshima, nella prima parte procede per strappi e suggestioni visive, nella seconda sembra assecondare delle cadenze meno esasperate che lasciano spazio alla storia che ricompone i frammenti narritivi del film, dando vita a un quadro drammaturgico sospeso tra la forza dei frammenti visivi e le cadenze del melodramma, tra le trovate narrative e le ellissi visionarie. L'ossessione per l'immagine in Resnais è parte integrante della narrazione e in Mon Oncle sembra accentuarsi per poi risolversi nel corso della storia, fino a riemegere con prepotenza nel finale. Quello che sembra gravare, con il suo peso eccessivo, la descrizione delle affannose contorsioni emotive dei tre protagonisti(oltre alle incursioni delle teorie di Laborit) è una certa teatralità di scarsa presa, una letterarietà meno incisiva di Hiroshima che qui sembra raggiungere un punto di non ritorno(in questo senso l'acme sarà toccato con le stucchevole frigidità verbale di Melò). Tutti in parte i tre protagonisti, con la Garcia che sembra staccarsi nettamente dagli altri per presenza scenica e una dolente fisicità. Se il tempo mette alla prova la tenuta di un film, Mon Oncle D'Amerique a tratti mostra la corda, si inabissa e riemerge inaspettamente per il vigore delle immagini, per la presa della sua architettura visiva che non ha nulla da invidiare alle capriole estetiche degli autori di maggior impatto di oggi (Malick, Von Trier), riservando allo spettatore dei bei momenti se si ha la voglia, e la tenacia, di aspettarli. Matteo De Chiara
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