Taxi Driver

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Un autentico ritratto noir Valutazione 5 stelle su cinque

di Tony Montana


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venerdì 24 dicembre 2010


Travis Bickle, reduce del Vietnam, e tassista nella città di New York, dopo una relazione andata a male con la bella Betsy, solo, alienato, sessualmente frustrato e ossessionato dalla pornografia e dalla violenza che vede in giro, si improvvisa giustiziere di strada, diventando così un eroe da prima pagina.
«La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita. Dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi… dappertutto. Non c’è scampo, sono nato per essere solo». Sono questi i pensieri che attraversano la mente di Travis Bickle mentre, al volante del suo taxi, osserva stranito la New York che lo circonda: di nuovo immersa nella notte, con i marciapiedi nuovamente solcati da individui rispetto ai quali egli non può che sentirsi alieno. Siano essi feccia come assassini e spacciatori, oppure figure celestiali come la bella Betsy, non fa molta differenza. Non vi è persona con cui sia possibile “comunicare”, per Travis; non vi è nessuno che comprenda – tenti di comprendere – il suo “linguaggio”, nessun’anima gentile che possa lenire il suo disagio. Ogni tentativo di “apertura” viene mortificato, vanificato dall’altrui incapacità di capire e, quando occorre, tollerare personalità più ‘complesse’ della propria. Travis non si sente – non è – parte del mondo che lo circonda. Il mondo che lo circonda è “altro” da lui. Ed è un mondo troppo sporco per viverci. Tutto questo è Taxi Driver: uno dei rarissimi film in grado di mostrare davvero (pur nella sua marcata connotazione violenta) che cosa significhi sentirsi individualità corporalmente e spiritualmente isolate rispetto alla comunità di cui si è parte ogni giorno, e soprattutto come questo male esistenziale (perché di male si tratta) possa arrivare a corrodere l’animo dell’individuo dallo stesso afflitto sino a farlo sragionare, specie laddove l’individuo in questione è già tendenzialmente instabile, non estraneo a sofferenza psicofisica e privo dei più basilari contatti affettivi. Una tematica, quella appena descritta, probabilmente molto più attuale oggi di quanto non lo fosse a metà degli anni Settanta, dal momento che la depressione (per quanto nel film associata ad una psiche già labile) è riconosciuta a tutti gli effetti come uno dei grandi mali dei giorni nostri. E’ forse anche per questo motivo che Taxi Driver riesce a raccontarsi oggi con la stessa eloquenza di allora, conservando inalterata quella capacità di scuotere la persona dal suo torpore, così come il regista Martin Scorsese e il fido sceneggiatore Paul Schrader desideravano potesse accadere (ed è accaduto) già nel 1976.
Un cult-movie quanto mai degno di tale denominazione, capace di tracciare con estrema efficacia la mappa psicologica del personaggio borderline per eccellenza del cinema di ogni tempo, un personaggio unico, letteralmente portato in vita da un Robert De Niro di allucinante bravura. Una regia lucida, pulita, quella di Scorsese, la cui maestria è ben visibile nel finale di pellicola (ma sono molte le finezze rintracciabili lungo tutta la sua durata), un finale in cui si denotano gli elementi tecnico-registici che andranno fortificandosi nei futuri lavori del cineasta newyorchese. Grandioso il “sotto-finale”, forte di un crescendo drammatico tale da distaccarsi nettamente da tutto ciò che ci era stato mostrato precedentemente; splendido il moto riflessivo con cui la cinepresa ripercorre a ritroso la scia di morte lasciata da Travis nel corso della sua missione di purificazione, un moto sorretto come meglio non si potrebbe dalle musiche ossessive di Bernard Herrmann, che in questo frangente abbandona il suono malinconico del sassofono le cui note avevano in precedenza accompagnato atmosfere ben più rilassate. Il finale vero e proprio è enigmatico e favorisce una duplice interpretazione. Le ultime scene mostranodi fatto “ciò che accade poi” (riflettendo attentamente su cosa sia lecito aspettarsi dal protagonista in un ipotetico futuro) o forse rappresentano gli ultimi pensieri di un Travis agonizzante? Il dibattito è ancora aperto.
Poco importa. Ciò che conta è il’substrato’ di questa storia, ed è tutto in quel monologo recitato (improvvisato) da De Niro davanti allo specchio. «Ma dici a me? Ma dici a me? Non ci sono che io qui…». Se la prima parte della frase (il famoso «you talkin’ to me?») è il frammento più citato di una delle battute più celebri della nostra memoria cinematografica, quel «non ci sono che io qui» è la vera essenza di Taxi Driver: parole lapidarie che nel contesto di una scena allucinata svelano tutta la frustrazione di cui è preda il personaggio e la sua vena di follia, una follia latente che però non si autoalimenta, bensì viene accresciuta dalle brutture e dall’insensibilità del mondo. Anche per questo, Taxi Driver non è solo il crudo spaccato di un’epoca circoscritta, ma un ritratto sempre attuale, sempre vivo. Perché, come recita la tagline del film: in ogni strada, in ogni città, c’è sempre un nessuno che sogna di essere qualcuno.

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