La classe operaia va in paradiso

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Un film di Elio Petri. Con Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Flavio Bucci, Luigi Diberti, Salvo Randone.
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Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 125 min. - Italia 1972. MYMONETRO La classe operaia va in paradiso * * * - - valutazione media: 3,44 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Spietata e veritiera analisi di un folle sistema. Valutazione 3 stelle su cinque

di Great Steven


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martedì 9 giugno 2015

LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO (IT, 1972) diretto da ELIO PETRI. Interpretato da GIAN MARIA VOLONTé, MARIANGELA MELATO, SALVO RANDONE, GUERRINO CRIVELLO, GINO PERNICE, LUIGI DIBERTI, MIETTA ALBERTINI, DONATO CASTELLANETA, ADRIANO AMIDEI MIGLIANO, EZIO MARANO, FLAVIO BUCCI
Lulù lavora in un’industria milanese come saldatore, e grazie al suo lavoro ininterrotto e svolto con meticolosità mantiene due famiglie. È criticato dai colleghi per il suo eccessivo servilismo nei confronti dei padroni e deve subire le lamentele della compagna, con la quale non riesce ad avere rapporti intimi per la stanchezza che accumula lavorando. Un giorno gli capita un incidente mentre traffica vicino ad un macchinario, e perde un dito. Immediatamente la fabbrica fa uscire un comunicato che inveisce contro la mancanza di sicurezza sul posto di lavoro, e Lulù, che mai s’è interessato di movimenti politici e proteste radicate, decide di aggregarsi all’organizzazione, ma per via della contestazione viene licenziato, in quanto indicato dai superiori come uno dei promotori della rivolta. Viene riassunto alla catena di montaggio grazie ad una vittoria del sindacato. Dopo l’ottimo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che vinse anche l’Oscar per il film straniero, Petri e Volonté tornano a collaborare in un film che presenta un pessimismo estremo, e svela la sua capacità di sviscerare la condizione dell’operaio, o di qualunque lavoratore del settore secondario, senza la minima pietà, mettendo in piedi un apologo socio-politico la cui terribilità è scandita dai monotoni e asfissianti ritmi della produzione industriale. Il regista conosce perfettamente la materia che tratta e la dipana come una matassa analizzando gli aspetti più crudeli e meno evidenti di una figura umana che, da una situazione di asservimento pressoché totalitaristico e un comportamento da animale da soma, passa ad un impegno sanguigno che, anziché realizzare il paradiso di derivazione comunista auspicato dai grandi filosofi del passato (in particolar modo Marx ed Engels, benché quest’opera cinematografica sia ben lontana dall’assumere uno stampo marxista), rischia di peggiorare le circostanze iniziali o al massimo le cambia di poco intensificando le sofferenze e aumentando un carico di lavoro sempre più alienante e spersonalizzante. Un Volonté estroverso e sardonico, una bizzarra Melato, un Randone eccellente e funzionale nel ruolo del vecchio mestierante caduto in una lucida follia filosofeggiante. La speranza non è nelle corde di questo film, che provvede a giustiziarla ed eliminarla alla radice, entrando nel mondo delle fabbriche italiane con un occhio quasi malvagio, esente da qualunque pietà e determinato a tracciare un quadro un po’ pleonastico ma di una sincerità indubbiamente spiazzante. Esemplificativa in tal senso è la sequenza in cui Lulù chiede all’impazzito Militina, mentre lo va a trovare in manicomio, quand’è che ha cominciato a capire che la sua mente si stava destabilizzando. Questo piccolo capolavoro di Petri ha il grande merito di non accusare il sistema in sé per sé, ma di polemizzare contro il suo funzionamento in particolare aggredendo gli uomini che lo gestiscono, e suggerendo che possono comportarsi diversamente per evitare di trasformare i propri dipendenti in automi cui rimane solo il raziocinio, a fronte di una perdita delle sensazioni umani più elementari e viscerali. Bravi anche i comprimari, fra cui si distingue il timido e inibito G. Crivello nelle vesti del progettista industriale, ciarliero e criticone, vessato all’unanimità dagli operai. Il montaggio di Ruggero Mastroianni e le musiche di Ennio Morricone contribuiscono a scandire le fasi della negatività che trasuda specialmente dalle scene finali, accompagnate dai sonori clangori delle macchine che necessitano dell’impiego indiscriminato e incondizionato di gruppi umani ridotti ad assomigliar loro quasi senza accorgersene. Palma d’oro al Festival di Cannes 1972. Nastro d’Argento alla Melato e a Randone (migliore attrice protagonista e miglior attore non protagonista).  

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