Una vita difficile

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Un film di Dino Risi. Con Claudio Gora, Alberto Sordi, Lea Massari, Franco Fabrizi, Lina Volonghi.
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Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 118 min. - Italia 1961. MYMONETRO Una vita difficile * * * * 1/2 valutazione media: 4,75 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Passaggi critici e controversi di Silvio Magnozzi. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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sabato 14 luglio 2018

UNA VITA DIFFICILE (IT, 1961) di DINO RISI. Con ALBERTO SORDI, LEA MASSARI, FRANCO FABRIZI, LINA VOLONGHI, CLAUDIO GORA, ANTONIO CENTA, LOREDANA NUSCIAK, DANIELE VARGAS, FRANCO SCANDURRA, JOHN KARLSEN, MINO DORO, CARLO KECHLER, VITTORIO GASSMAN, SILVANA MANGANO, ALESSANDRO BLASETTI
Silvio Magnozzi è un partigiano romano che nel 1943 si oppone all’occupazione nazista nel Nord Italia sia combattendo i soldati nemici sia stampando articoli per il giornale "La Scintilla". Una mattina, nei pressi del lago di Como, trova rifugio nell’albergo di Amalia Pavinato, dove però lo scova un tedesco. Per fortuna Silvio viene salvato dal pronto intervento di Elena, la figlia dell’albergatrice, che uccide il gerarca con un ferro da stiro, dopodiché gli cura la bronchite che lo attanaglia da giorni e notti passati nei cimiteri offrendogli rifugio e cibo per tre mesi nel vecchio mulino abbandonato di proprietà dei suoi defunti nonni. I due si promettono amore eterno, ma una notte Silvio rintraccia i compagni di lotta e torna con loro, a guerra finita, a Roma per riprendere la lavorazione al loro quotidiano, "Il Lavoratore", da sempre di matrice comunista e attento ai problemi della classe operaia, anche insieme all’amico di vecchia data e collega Franco Simonini. Ma Silvio capisce che Elena è rimasta delusa dal suo abbandono, dunque ritorna due anni dopo in Lombardia e le chiede di seguirlo nella capitale, ottenendo, dopo un iniziale tentennamento, risposta positiva. La loro vita di coppia procede però in forti ristrettezze economiche, e spesso sono costretti a mendicare i pasti, come accade la sera che il marchese Capperoni, amico della madre di Elena (scontentissima della fuga della figlia, per altro mai avvisata al riguardo), li invita a mangiare in una villa di nobili monarchici che li lasciano soli non appena avvertono alla radio il risultato del referendum istituzionale, avendo intuito di aver a che fare con due repubblicani. Poco dopo Silvio, da sempre legato politicamente alla fazione di sinistra, eppure obbligato, malgrado la vicinanza della figlia che sta anche per renderlo padre d’un bimbo, a svolgere un mestiere sottopagato e frustrante, partecipa agli eventi seguenti all’attentato a Palmiro Togliatti del 1948, e finisce in carcere. Dietro le sbarre comincia a lavorare al romanzo che ha in mente da tempo e apprende dalla consorte che il pargolo è nato, ma quando esce, due anni e mezzo dopo, scopre che Simonini, suo compagno d’idee proletarie, ha lasciato il giornale per schierarsi dal versante dei padroni. In un primo momento Elena lo sostiene, ma poi, spinta dalla madre, pragmatica e realista, vende tutta la sua dote per pagare a Silvio gli studi universitari, in quanto è d’accordo con Amalia sul fatto che il marito si laurei in architettura, e in virtù di ciò, con alcune raccomandazioni della suocera, otterrebbe un posto in un’importante azienda in provincia di Como, non senza trasferirsi a Cantù-Carminate, paese d’origine di Elena e sua madre. Silvio rifiuta con ira sia l’idea di andarsene da Roma sia quella di fare un lavoro estraneo al giornalismo; inoltre non brilla abbastanza negli studi e all’esame viene bocciato. Le cose continuano a complicarsi quando Silvio tenta di far pubblicare il suo romanzo, intitolato Una vita difficile e intriso di insinuazioni politiche e antimilitariste, e specialmente quando, dopo la bocciatura, si ubriaca in un night-club appartenente ad un uomo conosciuto in prigione e confessa alla moglie che la loro unione ha finora funzionato perché basata solo sull’attrazione fisica. Amareggiata e sdegnata, la donna pianta il marito e se ne va a Viareggio col di loro figlio Paolo, dove apre un negozio per conto proprio. Licenziato ormai anche dal giornale dopo la scarcerazione per mancanza di finanziamenti dalle alte sfere, Silvio, sempre più disperato, tenta di proporre con scarsissima fortuna il suo romanzo per il cinema, ma se non altro incontra sul set di un film ambientato nell’antica Roma il marchese Capperoni (che vi fa da comparsa), il quale gli rivela dove vive attualmente Elena. Ancora innamorato della moglie, Silvio si reca a Viareggio e tenta un ultimo disperato tentativo di riconquistarla, ma la donna, che sembra essersi accasata con un altro uomo, non solo non lo perdona, ma dà l’aria di non voler mollare lo stile di vita agiato in cui si trova al momento. Vedendosela sfuggire, Silvio si sfoga sul viale marittimo di Viareggio sputando su macchine e passanti: pare che nell’Italia del boom economico nulla rimanga più per le sue convinzioni comuniste. Molto tempo dopo (nel 1961), muore Amalia Pavinato, e Silvio si reca a Cantù-Carminate a bordo d’una lussuosa decappottabile. Unendosi al corteo funebre, tiene per braccio Elena e le rivela di essersi trovato un nuovo lavoro, una volta accantonate le idee politiche e le velleità da scrittore per agguantare la sicurezza e stabilità economiche, come Amalia ed Elena avevano sempre voluto. Rivedendo pure il mulino in cui si conobbero anni prima, la donna scoppia a piangere e accetta di tornare col marito. Ora Silvio, che con un nuovo ruolo è tornato a lavorare con Simonini, è stato assunto come segretario tuttofare dall’affarista Bracci, e può permettere al suo nucleo famigliare ogni sorta di comfort. Peccato, tuttavia, che il commendatore non perda occasione per tiranneggiarlo e sfruttarlo a suo piacimento, fino a spruzzargli in faccia per la rabbia un intero sifone di seltz davanti ad un vescovo. Non potendo tollerare l’ennesima umiliazione, Silvio torna da Bracci, lo getta con uno schiaffone in piscina e scappa dalla villa del borioso affarista con la moglie. Ritratto di quasi un ventennio di storia italiana vista attraverso gli occhi di un individuo che s’è sempre battuto in prima linea per difendere ciò in cui credeva per poi convertirsi alle leggi del mercato e del materialismo spurio, salvo poi redimersi e ritornare sui propri vantaggiosi passi. Magnozzi, sebbene non del tutto positivo perché non esente da ruzzoloni, errori e vanterie, è uno dei personaggi migliori della galleria di Sordi, che ha saputo farlo suo infondendogli l’ardore politico e quello sentimentale in eguale misura, bilanciando i due amori e senza la pretesa, che per altro sarebbe apparsa poco credibile, di far prevalerne uno sull’altro: Magnozzi ama Elena quanto il comunismo, e si dichiara disposto a sacrificare tutto il resto per coltivarli fino in fondo entrambi. Massari gli fa da co-protagonista edificando un carattere femminile di tutto rispetto, una donna molto più emancipata e in linea coi tempi che corrono rispetto al consorte, che asseconda le di lui scelte non sempre oculate, ma non manca di castigarlo quando eccede il limite lecito. Fra i personaggi principali, formidabili prove anche per Fabrizi, giornalista la cui amicizia non viene mai realmente a mancare nei confronti del protagonista (malgrado l’asservimento al diktat della ricchezza facile e i tiremmolla che rischiano di far crollare un castello che a volte sembra di carte), per Volonghi, suocera tutt’altro che megera al di là delle ingannevoli apparenze e votata piuttosto ad una sistemazione logica e non estemporanea del genero, cui ha dato sua figlia in sposa in pratica senza il minimo consenso, e per Gora, businessman con mani in pasta ovunque (industria, giornali, riviste, cinema) che in un primo momento tenta di corrompere Magnozzi garantendogli uno sfrontato aumento di salario e comodità sfrenate a patto che lui cambi idea sul pubblicare un articolo sul suo giornale di sinistra in cui viene fatto il suo nome riguardo a uno scandalo sulla questione dei braccianti meridionali e poi lo blandisce con successo facendolo passare sotto la sua livrea. Ma è solo un fuoco di paglia, perché Silvio, in fondo, accetta di abbandonare il talento artistico che comunque possiede sebbene tutti glielo neghino insieme all’acceso interesse politico solo per riavere accanto a sé moglie e figlio (esemplare, a tal proposito, la scena sulla spiaggia di Viareggio in cui Sordi chiede al bambino come vadano i rapporti fra lui e la mamma e come lei lo dipinga agli occhi del pargolo), in un finale solo all’apparenza benevolo, perché è vero che trionfa l’onestà e prevarica l’amore sul denaro, ma Silvio ed Elena si allontanano da quel mondo che non gli appartiene senza tener conto delle conseguenze che ne deriveranno di sicuro. È senz’altro una delle migliori opere di Risi, e non soltanto con Sordi come interprete fondamentale: il regista, supportato dall’ottima impalcatura di Rodolfo Sonego, tratta una materia ancora calda e dunque non elementare e lo fa senza tema di invischiarsi in possibili fraintendimenti da parte di chi non è d’accordo politicamente parlando, ma sortendo comunque un esito eccellente perché riesce ad affiancare alla vicenda personale di un uomo e di una donna che s’uniscono e si dividono più volte la vicenda di un Paese in inaspettato e veloce mutamento che risorge dalle ceneri della guerra per avviarsi ad un futuro non troppo ben definito che (ed è in sostanza questa la morale conclusiva di questa intramontabile pellicola) premia spesso chi non merita di essere premiato e punisce invece coloro che da sempre non hanno lesinato tempo né fatica per ricostruire daccapo qualcosa che valeva decisamente la pena di resuscitare. Nella sequenza del film da girare sui legionari, appaiono per pochi istanti Gassman, Mangano e Blasetti nella parte di sé stessi.

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