Ema

   
   
   

L'ANGELO DANNATO DI LARRAÍN

di Marco


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martedì 1 settembre 2020

Pablo Larraín, dopo la parentesi hollywoodiana di Jackie, con Ema ritorna nel suo Cile cimentandosi coi temi sociali insiti nella sua prima filmografia (chissà che disastro se Ema avesse incontrato Tony Manero).
Con la figura di questa donna/bambina inquieta e disagiata, poi ribelle e brutale, Larraín ci pone di fronte a tutta l’angoscia, l’indigenza, l’inadeguatezza che la società di oggi può provocare nell’individuo scatenando in esso reazioni incontrollate spesso più legate alla sfera dell’istinto che a quella della ragione.
Ema è dunque un angelo dannato, una figura ammaliatrice, personificazione di una lotta per l’emancipazione violenta e autodistruttiva il cui fine sembra essere un concetto più ampio e assoluto di libertà. Il fine è giusto, i metodi con cui lo si persegue no. Ma siamo certi che la colpa sia dell’individuo? È questo uno degli interrogativi che più viene da porsi guardando gli occhi di Ema, uno sguardo profondo ma imperscrutabile, che non fa trapelare le sue emozioni (eccetto che per un istante verso la fine del film), anzi, le trattiene quasi fossero un’arma da usare contro gli altri. Un’interpretazione che l’azzeccatissima Mariana Di Girolamo riporta sullo schermo con una recitazione a tinte horror mai sopra le righe, anche se, è evidente: Ema è un vulcano che sta per esplodere, è solo questione di tempo. In questo senso, Larraín è bravissimo ad utilizzare le scene di danza (Ema è una ballerina) facendocele percepire quasi come fossero sinistri rituali condensatori di un’isteria collettiva latente (qui ho percepito delle assonanze col Suspiria di Guadagnino); d’altronde Ema è un po’ una strega e le compagne di danza sono certamente le sue adepte.
Dunque con Ema Pablo Larraín colpisce ancora: grande cinema per gli occhi e per la mente (passando inevitabilmente “per lo stomaco”); una storia molto al femminile, ricca di concetti (forse talvolta un po’ troppo reiterati), con un’aspra critica ai retaggi culturali del passato che qui sono rappresentati dal maschio che col suo machismo retrogrado si copre di ridicolo, scadendo inevitabilmente nel patetico.

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