Elizabeth Sparkle, ex star del cinema da tempo obliata dallo showbiz, ricicla la propria avvenenza in una seconda pelle in lycra promulgando i vantaggi di un’aerobica coreutica televisiva decisamente soigné.
Sebbene graziata da una genetica ottriata, Harvey, il trimalcionico presidente del network, nonostante l’appagante tenitura dello show emenda brutalmente dal palinsesto la professionista colpevolizzandola di aver appena inopportunamente spento cinquanta candeline. Ed è con tale empietà che irrompe l´exploiting della figura di potere, figura cui l’ethos fonda sulla celebrazione e sulla mercificazione delle giovani curve basaltiche e desiderabili vox populi.Siamo dinanzi a un classico topos ageista, attraverso cui il modesto viatico culturale del virilismo convenzionale, decreta l’avvento della condizione inseducibile o comunemente detta inchiavabile. Una parabola vitale discendente la cui branca muliebre al limine della propria spendibilità estetica e sessuale deve farne contezza accettandone la torva immanenza.
Il fato designa alla radiosa Sparkle il taumaturgico incontro con The Substance. Un impiastro rivoluzionario anti-aging non certamente galenico, posologicamente consistente in iterate endovenose di un farmaco assicuratore di ringiovanimento. La prima inoculazione darà partenogeneticamente luogo all’irriferibile parto spinale di Sue, il doppelgänger di Elizabeth, venticinquenne dal volto florido e venusto sostenuto da una complessione egregiamente tonica che si rivelerà un’ottima sostituta alla conduzione del programma di fitness del quale la cassata Sparkle ne fu dapprima titolare.
Il film zuma pervicacemente sulla cruda teatralità degli step granguilogneschi attraverso i quali si materializza questo sorta di “duplicato” che permetterà alla coscienza di Elizabeth, a settimane alterne, di farsi sinolo della fresca e levigata corporeità del suo venereo simulacro. Simulacro avido di successo e riconoscimento e che, come la sua matrice, rimarrà altrettanto dormiente per una settimana a favore dello spettante agire settimanale dell’ex attrice cinquantenne.Liofilizzando gli innumerevoli e complessi processi performanti, la patogenesi del protratto sinaptare innescherà una mutualità persecutoria impastata di gelosie, odii e competizioni, inoltrando l´unitarietà delle due entità al reboante epilogo splatterone cronenberghiano.
Coralie Farget, sembrerebbe aver creato un sudario di celluloide da deporre sui corpi di quella frangia femminina inarrendevole, strenuamente impegnata contro le inutili battaglie con uno specchio che a tempo debito annulla impietosamente il compiacere l’immagine in esso riflessa.
Visto sotto un’angolatura ermeneutica forse provocatoria, The substance si potrebbe interpretare come un manifesto indiziariamente antifemminista dato la risibile perculazione che emerge dal film e che va ad investire una torma dell’altra metà del cielo patologicamente infatuata della sola immagine di sé. Fatto che, involontariamente, gratifica l’atavico livore dell’universo incel, oltremodo molestando sottotraccia il wokeness imperante con tutte le sue orrifiche propaggini mistificatorie.
Nonostante la regista abbia assemblato un cast particolarmente ispirato, per taluni spettatori sarà plausibile opinare che, se a questo tragico & grottesco lungometraggio - dazebao del narcisismo covert delle martiri del “forever young”- venissero rimossi l´insistenza degli oscarizzanti virtuosismi prostetici, l´ammaliante ipersaturazione dei cromatismi, il graffiante erotismo rifratto nella polita nudità dei corpi, gli environment losangelini supercool, ebbene verremo rapiti da un “punctum” già profondamente metabolizzato dalla normata estetica maschile supremamente ineducata e manierista. Trattasi di una fetta antropologica percettologicamente defettibile, la quale, in modo surrettizio, vieta alla Donna la raggiungibilità dell’ontoso, inestetico stato senile, affrancandola a una nutrizione di pietanze chimiche, esercizi callistenici massacranti, bisturi egemonizzanti al mero fine di allinearsi ai paradigmi canonizzati indicati dal grossolano genere maschile.
L’immaginifico pastiche citazionistico cosparso nel curioso body horror della cineasta francese, è tutto sommato un assieme che esalta e nel contempo denuncia a tuttotondo l’oggettificazione sessualizzata della donna divenuta un prodotto sociologico totalmente ossificatosi nel tessuto sociale.
Lo spettatore, infine, sniderà facilmente la timida irrisione all’ineludibile nemico chiamato invecchiamento, scaturigine di un quadro clinico fortemente turbativo permeante i soggetti adiacenti al temutissimo crepuscolo, ovverosia il capolinea del godimento della prestanza e della bellezza gratuita.
E il diktat rimane immutato: congelare il piú a lungo possibile beltà e giovinezza, anche a rischio di perdere la vita per mano di un filler malestro.
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