Nel minuscolo villaggio iraniano di Jabbar un abitante del luogo informa il regista Jafar Panahi (sì, proprio lui, che recita nel film interpretando se stesso) che di notte deve fare attenzione ad andare in giro, per timore degli orsi. Il regista è stato convocato dal capo villaggio a giurare sul Corano, in un'apposita sala dei giuramenti, di non essere in possesso di una foto che metterebbe nei guai una coppia di innamorati (la ragazza è stata promessa fin dalla nascita ad un tipo violento), foto di cui invece gli uomini del villaggio vogliono a tutti i costi impadronirsi. Panahi e il suo accompagnatore si aggirano per le strade del villaggio di notte per raggiungere la sala dei giuramenti.
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Nel minuscolo villaggio iraniano di Jabbar un abitante del luogo informa il regista Jafar Panahi (sì, proprio lui, che recita nel film interpretando se stesso) che di notte deve fare attenzione ad andare in giro, per timore degli orsi. Il regista è stato convocato dal capo villaggio a giurare sul Corano, in un'apposita sala dei giuramenti, di non essere in possesso di una foto che metterebbe nei guai una coppia di innamorati (la ragazza è stata promessa fin dalla nascita ad un tipo violento), foto di cui invece gli uomini del villaggio vogliono a tutti i costi impadronirsi. Panahi e il suo accompagnatore si aggirano per le strade del villaggio di notte per raggiungere la sala dei giuramenti. Ad un certo punto l'uomo dice a Panahi di continuare da solo. "E gli orsi?" chiede preoccupato il regista. "Gli orsi non esistono, qui da noi. Sono stati inventati per far paura alla gente e costringerla a non allontanarsi dal villaggio".
Anche in una zona lontana dalla capitale è arrivato dunque quel Potere che umilia, schiaccia e controlla i sudditi in modo totale e asfissiante. E collaboratore di quel Potere è la tradizione secolare, intrisa di maschilismo e di superstizione, e contro la quale l'arte del regista non solo non può nulla, ma rischia addirittura di essere deleteria per i protagonisti delle vicende che narra.
Fortemente pessimista e quasi privo di speranza è l'ultimo film del regista iraniano, che è stato da poco (nel luglio 2022) condannato dal suo paese a sei anni di carcere per propaganda contro il governo. E sembra che questa visione negativa sia riservata non solo alle condizioni medievali di vita di un paese governato con mano inflessibile dai Guardiani della Rivoluzione e dove le libertà del singolo letteralmente non esistono, ma anche alla stessa arte di Panahi, al suo tentativo di raccontare storie che denunciano questo stato di fatto. Ogni intervento creativo, sembra dirci Panahi, non solo viene boicottato e fatica a vedere la luce, ma addirittura è controproducente per le persone che quei fatti li vivono sulla propria pelle. E rischia anche di essere una falsificazione, magari edulcorata, della realtà (accusa che il regista si vede rivolgere dall'attrice che interpreta il film nel film, che il regista sta cercando di girare).
L'ultima scena ci mostra Panahi all'interno della sua automobile: dopo aver visto sulla strada i corpi delle vittime di una violenza che la sua stessa presenza nel villaggio ha contribuito a scatenare, il regista ferma la macchina e impietrisce: sul suo volto si dipinge uno sguardo sconsolato e affranto sul quale non pare di leggere alcuna luce possibile nel futuro del regista e del suo paese.
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