eugenio
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domenica 15 aprile 2018
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fantasmi insanguinati
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Non è una canzone di Michael Bublè, chiariamolo subito.
Di beautiful c’è solo il titolo (italiano) della pellicola di Lynne Ramsay che adatta il testo di Jonathan Ames uscito in Italia col titolo Non sei mai stato qui.
Ecco, forse prima di vedere il film, apparentemente collage di scucito di sequenze senza un filo logico o una precisa collocazione temporale, occorrerebbe approcciarsi al libro, due racconti noir descritti con sapiente crudezza e lucida sintesi da Ames come tributo evidente, per atmosfere e luoghi, a Raymond Chandler e Donald Westlake. Il protagonista è Joe, un ex marine e un ex agente dell’FBI, segnato da una vita di morte e violenza, di crimini e traumi, non solo a livello meramente professionale.
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Non è una canzone di Michael Bublè, chiariamolo subito.
Di beautiful c’è solo il titolo (italiano) della pellicola di Lynne Ramsay che adatta il testo di Jonathan Ames uscito in Italia col titolo Non sei mai stato qui.
Ecco, forse prima di vedere il film, apparentemente collage di scucito di sequenze senza un filo logico o una precisa collocazione temporale, occorrerebbe approcciarsi al libro, due racconti noir descritti con sapiente crudezza e lucida sintesi da Ames come tributo evidente, per atmosfere e luoghi, a Raymond Chandler e Donald Westlake. Il protagonista è Joe, un ex marine e un ex agente dell’FBI, segnato da una vita di morte e violenza, di crimini e traumi, non solo a livello meramente professionale.
Joe non ha amici, è un solitario, un mercenario, un angelo sterminatore. Almeno così è diventato, trasformato da una vita passata di violenze fatte e subite, un prezzolato. Salva giovani vite, ragazze appena adolescenti, finite nelle grinfie di delinquenti senza scrupoli (che appaiono rispettabili padri di famiglia “nell’altra vita”) nella girandola mortale del sesso a pagamento. Finchè, assunto da un senatore per salvare la relativa figlia, Nina, invischiata in un giro di prostituzione a Manhattan, penetra sempre più nei meandri di quell’universo corruttivo che muove le pieghe nascoste della società metropolitana americana.
Incapace di dissipare il dedalo labirintico di bambini abusati e cresciuti alla mercè di orchi e ulteriormente segnato dall’uccisione dell’unica persona a lui cara, l’anziana e malata madre, Joe inizia a uccidere. Armato di martello, farà giustizia a modo suo, menando colpi e fendenti più al fantasma della disperazione cui fugge, che al nemico in carne e ossa davanti, trasfigurato in intelligenti flash-back. Joe ammazza, si muove svelto come se non fosse stato mai lì. Come se non esistesse. Come se fosse un’eterea proiezione di un limbo di dannazione e disperazione.
Questo il libro ed il film ben ne palesa la caratteristica evidente di un uomo malato della cosiddetta sindrome da stress post-traumatico. Grazie a un interprete carismatico e ben tormentato che ha qui il volto di Joaquin Phoenix, You Were Never Really Here, questo il titolo originale, presenta in sequenza disordinata, tratti di vita convulsa di Joe, assuefatto inevitabilmente a una violenza che la cineasta “stempera” (o esacerba, dipende dai punti di vista) con note di musica classica e una colonna sonora di Johnny Greenwood, sulla falsa riga del cinema di Quentin Tarantino.
Il citazionismo in A beautiful day non finisce qui tuttavia. Da Leon di Besson, palesato nel rapporto con la figlia del senatore salvata in extremis, a Drive o Taxi Driver nella figura allucinata e paranoica del protagonista (che non parla da solo ma con immagini montate a ritmo serrato di eloquenti flashback), sino allo splatter che mancava nel cinema d’azione o almeno in un thriller.
Perché in fondo, A beautiful day, a modo suo lo è. Di tante pellicole tutto sommato simili, con un soggetto assai poco originale che battono i territori comuni della violenza e del cinema “di genere”, questo film ha uno stile che decine di film passati non possiedono: pochi dialoghi, una recitazione che si muove per sottrazione più che per effetto speciale, ritmo sincopato (vedi Fight Club senza pugni e lotte, se si vuole aggiungere Palaniuk), una concentrazione sui primi piani, una rievocazione frammentaria del doloroso passato (alla Memento di Nolan) con tanto di padre violento e crimini di guerra, su cui si apre un presente di una deleteria quanto improvvisa esplosione di violenza.
Difficile non rimanere turbati dalla scarsa ora e mezza di A beautiful day. Angosciato e angosciante, empatico quanto posato nella misura scelta del disastro emotivo, il film è un irrazionale inno alla disperazione di un viaggio, più mentale, che fisico di una New York sfumata e distante, frenetica e atona al tempo stesso, nella solitudine di corpi malati, nell’illusione precaria di una “bella giornata”.
Dal 3 maggio al cinema.
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ediesedgwick
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mercoledì 11 aprile 2018
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you were never really here...
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La sig.ra Ramsay si fionda nel thriller dai connotati di violenza e disillusione con un personaggio duro, crudo e 'all'occorrenza' spietato incarnato dai silenzi tormentati del magnetico Joaquin Phoenix, ma qualcosa va storto. Lynne Ramsay vorrebbe riavvalersi (in buona parte fallisce, inevitabile) della brillantezza e soprattutto pesantezza monolitica di regia dei Coen d'annata molto probabilmente (tra le altre cose) aggiungendo sprazzi di inquieto accompagnamento simil-'Drive'(2011), ma lo smacco consiste banalmente nel fatto che un qualche segmento di trama meno organico, al pelo della tenuta del brivido, meno "di collaudo" per questo 'one man show' che sembra in certe parti fatto a memoria su altri precedenti, e magari una ventina di parole in più che spezzassero la prassi 'tensione-demoni' non avrebbero guastato insomma, e già il film non avrebbe nulla da invidiare a un prodotto (altresì indipendente) quale "Blue Ruin" con cui ha molti aspetti da spartire.
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La sig.ra Ramsay si fionda nel thriller dai connotati di violenza e disillusione con un personaggio duro, crudo e 'all'occorrenza' spietato incarnato dai silenzi tormentati del magnetico Joaquin Phoenix, ma qualcosa va storto. Lynne Ramsay vorrebbe riavvalersi (in buona parte fallisce, inevitabile) della brillantezza e soprattutto pesantezza monolitica di regia dei Coen d'annata molto probabilmente (tra le altre cose) aggiungendo sprazzi di inquieto accompagnamento simil-'Drive'(2011), ma lo smacco consiste banalmente nel fatto che un qualche segmento di trama meno organico, al pelo della tenuta del brivido, meno "di collaudo" per questo 'one man show' che sembra in certe parti fatto a memoria su altri precedenti, e magari una ventina di parole in più che spezzassero la prassi 'tensione-demoni' non avrebbero guastato insomma, e già il film non avrebbe nulla da invidiare a un prodotto (altresì indipendente) quale "Blue Ruin" con cui ha molti aspetti da spartire. Non serviva altro che un tozzo di carbonella in più, perché la professionalità c'è tutta, ma in questi casi 'a voglia' - auguri vivissimi - riportare sugli schermi la potenza e la crudescenza del personaggio come in "Non È Un Paese Per Vecchi" per dirne una. Ciò detto, gli assunti della trama non svaniscono affatto, e gran parte dell'attrazione ha gioco a dirittura di un'ennesima, vibrante prestazione commissionata a un Phoenix "in stato di grazia" come si suol dire (che risente forse della modica originalità della presa soggettiva e in proposito al suo turbamento che non si stempera mai neanche alla luce delle conseguenze) ma il merito è dovuto altrettanto al bieco commento sonoro di Jonny Greenwood, paragonabile di certo allo 'score' ossessivo ed elettrizzante di Cliff Martinez per 'Drive'. Poco ma sicuro, perché molto altro da dare, oltre che tentare di non vaporizzare nel nulla queste due risorse/qualità 'di per sé' compenetrandole q.b. in tralice alle immagini, il film non ce l'ha, a dire il vero, o non sembra sapersi mostrare così in profondità, né in via di approfondirne la portata, il senso di 'peso' (ribadire la forza e lo "sbieco" delle scene non basta). Ricorda (come ho detto) per molti versi 'Blue Ruin' a partire dall'ergonomia delle sequenze cruente e nella tematizzazione dei trascorsi traumatici del protagonista (qui ben di più). Lo stile comunque in sé non fa acqua almeno, bello rappreso, non si perde granché in tonalità, divagazioni o 'trucioli' di sorta più di troppo, ma manca il 'vivido', l'attenzione e incisività assoluta della regia più cruda di scuola coeniana. C'è da dire che ormai (considerazione molto generale) il 'trasporto' e la suspense puramente 'da trama' stessa sono difficili da rimettere a oltranza col senno di capolavori, la tensione si riduce quasi a una mezza opinione di autore in autore, un massimale, ci si muove in riferimento invece che nel suo segno (intendiamoci, l'ispirazione però non è un optional, se e quando il film 'scorre' e allo stesso tempo sa attanagliare, anche di poco più del 'giusto', sindacale magari per premesse, be' è lampante, lo si sente, forte e chiaro e immediatamente). In conclusione, questione di carattere, di bravura registica, gestione dell'azione e dell'indugio, o più semplicemente di genio, di saper 'oltraggiare' il filo delle situazioni attraverso sprazzi davvero indimenticabili - non si può dire la stessa cosa in questo thriller da falsariga (per atmosfera e caratteristiche indebitate ad altri celebri precedenti, in primis proprio "Drive", da cui mutua la saturazione emotiva, espressiva dell'unico protagonista) senza niente di inaudito (tocchi alla 'Biutiful' e alla Refn appunto, ma non reggerebbe il confronto di rilievo). Diciamo pure accettabile, per il resto, encomiabili la freddezza e la 'traumaticità' che trasmette riguardo alle peggiori, terribili esperienze familiari e/o personali e la scelta della 'distanza' di sguardo nell'impressionante mortalità, nella moria, quantomeno fino al finale sospeso e senza banali giustezze psicologiche. Al largo della disincantata prova di Phoenix (premiata a Cannes), tutto il resto vien da sé - tra commi di innocenza minorile stratificata e uno spiazzante "lieto"?fine - non necessariamente al meglio delle possibilità. Senza infamia ma senza lode
Voto: 5+/10
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[+] beh, insomma.....
(di francesco2)
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marietto2008
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mercoledì 11 aprile 2018
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si
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francesco2
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domenica 8 aprile 2018
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e' un classico?
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La Ramsay, scozzese cresciuta –per sua ammissione- in una Glasgow dove la violenza a volte era di casa, ha confezionato un film crudo ed interpretato molto bene. Come mai, allora, sorge il sospetto che sia “solo” un buon film, dove il lieto(?)fine non fa rima con stupidità, e nient’altro? A parte gli accostamenti ingenerosi con il piccolo –secondo chi scrive- “Léon” di Besson, forse la storia non aggiunge nulla di nuovissimo, né i continui flashback sulla vita del protagonista aiutano il film a trovare una dimensione diversa.
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