Non è una canzone di Michael Bublè, chiariamolo subito.
Di beautiful c’è solo il titolo (italiano) della pellicola di Lynne Ramsay che adatta il testo di Jonathan Ames uscito in Italia col titolo Non sei mai stato qui.
Ecco, forse prima di vedere il film, apparentemente collage di scucito di sequenze senza un filo logico o una precisa collocazione temporale, occorrerebbe approcciarsi al libro, due racconti noir descritti con sapiente crudezza e lucida sintesi da Ames come tributo evidente, per atmosfere e luoghi, a Raymond Chandler e Donald Westlake. Il protagonista è Joe, un ex marine e un ex agente dell’FBI, segnato da una vita di morte e violenza, di crimini e traumi, non solo a livello meramente professionale.
Joe non ha amici, è un solitario, un mercenario, un angelo sterminatore. Almeno così è diventato, trasformato da una vita passata di violenze fatte e subite, un prezzolato. Salva giovani vite, ragazze appena adolescenti, finite nelle grinfie di delinquenti senza scrupoli (che appaiono rispettabili padri di famiglia “nell’altra vita”) nella girandola mortale del sesso a pagamento. Finchè, assunto da un senatore per salvare la relativa figlia, Nina, invischiata in un giro di prostituzione a Manhattan, penetra sempre più nei meandri di quell’universo corruttivo che muove le pieghe nascoste della società metropolitana americana.
Incapace di dissipare il dedalo labirintico di bambini abusati e cresciuti alla mercè di orchi e ulteriormente segnato dall’uccisione dell’unica persona a lui cara, l’anziana e malata madre, Joe inizia a uccidere. Armato di martello, farà giustizia a modo suo, menando colpi e fendenti più al fantasma della disperazione cui fugge, che al nemico in carne e ossa davanti, trasfigurato in intelligenti flash-back. Joe ammazza, si muove svelto come se non fosse stato mai lì. Come se non esistesse. Come se fosse un’eterea proiezione di un limbo di dannazione e disperazione.
Questo il libro ed il film ben ne palesa la caratteristica evidente di un uomo malato della cosiddetta sindrome da stress post-traumatico. Grazie a un interprete carismatico e ben tormentato che ha qui il volto di Joaquin Phoenix, You Were Never Really Here, questo il titolo originale, presenta in sequenza disordinata, tratti di vita convulsa di Joe, assuefatto inevitabilmente a una violenza che la cineasta “stempera” (o esacerba, dipende dai punti di vista) con note di musica classica e una colonna sonora di Johnny Greenwood, sulla falsa riga del cinema di Quentin Tarantino.
Il citazionismo in A beautiful day non finisce qui tuttavia. Da Leon di Besson, palesato nel rapporto con la figlia del senatore salvata in extremis, a Drive o Taxi Driver nella figura allucinata e paranoica del protagonista (che non parla da solo ma con immagini montate a ritmo serrato di eloquenti flashback), sino allo splatter che mancava nel cinema d’azione o almeno in un thriller.
Perché in fondo, A beautiful day, a modo suo lo è. Di tante pellicole tutto sommato simili, con un soggetto assai poco originale che battono i territori comuni della violenza e del cinema “di genere”, questo film ha uno stile che decine di film passati non possiedono: pochi dialoghi, una recitazione che si muove per sottrazione più che per effetto speciale, ritmo sincopato (vedi Fight Club senza pugni e lotte, se si vuole aggiungere Palaniuk), una concentrazione sui primi piani, una rievocazione frammentaria del doloroso passato (alla Memento di Nolan) con tanto di padre violento e crimini di guerra, su cui si apre un presente di una deleteria quanto improvvisa esplosione di violenza.
Difficile non rimanere turbati dalla scarsa ora e mezza di A beautiful day. Angosciato e angosciante, empatico quanto posato nella misura scelta del disastro emotivo, il film è un irrazionale inno alla disperazione di un viaggio, più mentale, che fisico di una New York sfumata e distante, frenetica e atona al tempo stesso, nella solitudine di corpi malati, nell’illusione precaria di una “bella giornata”.
Dal 3 maggio al cinema.
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tom87
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martedì 15 maggio 2018
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perversione e alienazione della società americana
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La pellicola, a partire dal romanzo di Jonathan Ames, è un noir iperrealista e disperato, visivamente potente, ben fotografata da Thomas Townend, che nelle mani di una brava regista diventa un'opera esistenziale di delirante psicoanalisi. Un film ambizioso e stilizzato, con un interessante script e con un magnifico Joaquin Phoenix, entrambi premiati a Cannes 2017, ma meritava anche la regia che ricorre a coraggiose scelte stilistiche e di montaggio. Lo script procede secondo il punto di vista del protagonista, senza darci informazioni sull'incastro in cui si ritrova. La messinscena punta su una vena horror piuttosto marcata, e anche su un certo tipo di violenza brutale, fisica ed emotiva al tempo stesso, che riesce a coinvolgere e disturbare lo spettatore.
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La pellicola, a partire dal romanzo di Jonathan Ames, è un noir iperrealista e disperato, visivamente potente, ben fotografata da Thomas Townend, che nelle mani di una brava regista diventa un'opera esistenziale di delirante psicoanalisi. Un film ambizioso e stilizzato, con un interessante script e con un magnifico Joaquin Phoenix, entrambi premiati a Cannes 2017, ma meritava anche la regia che ricorre a coraggiose scelte stilistiche e di montaggio. Lo script procede secondo il punto di vista del protagonista, senza darci informazioni sull'incastro in cui si ritrova. La messinscena punta su una vena horror piuttosto marcata, e anche su un certo tipo di violenza brutale, fisica ed emotiva al tempo stesso, che riesce a coinvolgere e disturbare lo spettatore. E' in sostanza un viaggio audiovisivo, in sé terapeutico e traumatico, seduttivo e spiazzante, che lavora d'accumulo e sgradevole crudezza, e che mira sempre alla frattura e mai alla ricomposizione. Agghiacciante.
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l''imbecille
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giovedì 19 luglio 2018
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condivido in pieno
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Condivido in pieno; anzi ci metterei "il carico" come suol dirsi. Un film frammentato dove è persino difficile capire il <>. Per gran parte dei 95 minuti circa lo spettatore si chiede: <>. Niente da fare una risposta coerente non la si vede neanche alla fine del film.
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