La scelta di limitare l’azione all’interno dell’abitacolo di un’auto, in mezzo a un bosco di notte, con solo 4 personaggi, tre dei quali semplici meteore, se da una parte costituisce un’interessante innovazione per lo zombie movie, dall’altra però paga un po’ lo scotto di una complessiva lentezza e di una certa ripetitività, non aiutata, ahimè, dai dialoghi, che spesso risultano poco credibili ed al limite della plausibilità, tanto da portarci più di una volta a pensare che forse quello che raccontano al telefono alla povera Hope in realtà sia tutta una buffonata, una farsa, e che lei faccia parte di un non so quale esperimento tutto da rivelare.
[+]
La scelta di limitare l’azione all’interno dell’abitacolo di un’auto, in mezzo a un bosco di notte, con solo 4 personaggi, tre dei quali semplici meteore, se da una parte costituisce un’interessante innovazione per lo zombie movie, dall’altra però paga un po’ lo scotto di una complessiva lentezza e di una certa ripetitività, non aiutata, ahimè, dai dialoghi, che spesso risultano poco credibili ed al limite della plausibilità, tanto da portarci più di una volta a pensare che forse quello che raccontano al telefono alla povera Hope in realtà sia tutta una buffonata, una farsa, e che lei faccia parte di un non so quale esperimento tutto da rivelare. Ma non è così. Hope sta veramente vivendo quell’incubo, lei come tutta la terra, di cui però noi non vediamo né sentiamo nulla, possiamo solo immaginare dai toni concitati di coloro che, in un modo o nell’altro, si trovano in contatto telefonico con la giovane. Qualcosa di simile aveva fatto nel 2011 il regista danese Lars Von Trier nel suo meraviglioso Melancholia, in cui aveva deciso di presentarci la fine del mondo, l’apocalisse, non attraverso le scomposte reazioni del genere umano che si trova a dover fronteggiare la follia della fine imminente, ma attraverso gli stati d’animo di una giovane donna che si trova ad accogliere il drammatico evento in una villa sperduta nel nulla, nel silenzio e nella solitudine quasi totali. Ed è allora che l’horror diventa dramma, i mostri diventano veicolo per scandagliare l’animo umano, per capire come qualcuno potrebbe reagire alla totale perdita delle certezze su cui poggiamo giornalmente le nostre vite: gli affetti, il lavoro, la casa, la nostra memoria personale e quella collettiva della nostra storia.
Quindi non c’è per nulla un’idea banale alla base della sceneggiatura di Almost Dead, ma forse il progetto, per un giovane regista, talentuoso sì, ma alle prime armi, è un tantino ambizioso, e spesso Bruno se lo lascia sfuggire di mano, come appunto nei dialoghi insensati, nel doppiaggio non sempre al massimo, nelle prove non totalmente convincenti della protagonista, e in una staticità di fondo che forse poteva essere evitata con qualche trovata in più che rompesse la monotonia dell’azione a fulcro unico. Lo stesso John Erik Dowdle, che nel 2010 decide di ambientare il suo Devil all’interno di un ascensore, fornirà tuttavia il film di un discreto apparato di controscene in cui l’azione esce dallo spazio angusto per riprendere fiato all’esterno, per poi riportare la nostra attenzione a voler tornare tra quelle quattro mura per vedere come si sbroglierà la trama. Qui, invece, si rimane sempre e solo lì, e anche le saltuarie incursioni di Hope fuori dal veicolo non bastano a tenere alta l’asticella dell’attenzione che spesso vacilla alla continua ricerca di un motivo per ritirarsi su, fosse anche, mi costa dirlo, un jumpscare. Perché quando si gioca sulla costruzione delle atmosfere bisogna farlo bene, tenere sempre vivo l’interesse vorace dell’appassionato di horror, e se lo si lascia calare, a quel punto, perché no, un bel salto sulla poltroncina ci sta bene eccome. Ma qui, purtroppo, non avviene, e si rimane su una linea abbastanza piatta, sebbene alcune trovate, soprattutto quelle che riguardano l’introspezione e la costruzione della consapevolezza della protagonista, siano senz’altro interessanti e degne di nota.
Insomma, il film di Giorgio Bruno non è assolutamente malaccio, è anzi pieno di idee e risorse interessanti, come quella, ad esempio, di utilizzare il parco della Villa Comunale di Catania trasformandolo in un bosco incontaminato, o quella di mutare, pian piano, la protagonista da vittima a carnefice, svelando, attraverso tutta una serie di telefonate, che ricordano quelle del claustrofobico Buried di Rodrigo Cortés del 2010, una realtà sempre più agghiacciante e dalla quale sembra ormai difficile riuscire a scappare. Bruno padroneggia una regia professionale e curata nei minimi dettagli, e sfrutta meglio possibile i pochi mezzi a sua disposizione; tuttavia, forse, sarebbe stato il caso di sacrificare un po’ della parte dialogata a favore di una maggiore tensione narrativa, soprattutto nella parte centrale, rendendo gli zombie un po’ più protagonisti ed un po’ meno, semplicemente, contorno. Nonostante il terribile evento nel quale Hope si trova invischiata, non c’è però mai una vera e propria potenza drammatica, e non ci sono i presupposti perché si venga a creare una solida empatia con la protagonista, che non si capisce bene mai da quale parte voglia stare. Hope è egoista, cinica, egocentrica, per nulla simpatica, e la sua disperazione non coglie mai nel segno, anche perché incapace di provare reali sentimenti a causa dell’amnesia che l’ha colpita a seguito dell’incidente. Quello che veramente pare interessarle è salvare la propria vita, noncurante degli altri, anche di coloro che, come e più di lei, si sono ritrovati in quella situazione per caso ed esenti da colpe.
Nel finale Bruno decide di riportare lo zombie movie lì dove era nato, alle sue origini di critica sociopolitica, e lo fa attraverso la presa di consapevolezza di ciò che sta accadendo, da parte della protagonista, e, con lei, dello spettatore: si vive in una spietata società classista, dove solo determinate classi privilegiate, i ricchi e potenti per intendersi, potranno procurarsi l’antidoto per sopravvivere al virus, mentre il resto dell’umanità sarà inevitabilmente condannato all’estinzione. Il fatto che Almost Dead volesse in qualche modo riallacciarsi agli zombie romeriani, tanto amati dal regista, è anche comprensibile dal modo di rappresentare gli stessi morti viventi, non più iperdinamici e velocissimi come quelli a cui ci ha abituato una buona fetta di filmografia zombesca recente, ma lenti e traballanti, alla vecchia maniera, massimamente adatti per rendere l’idea di un’umanità ormai perduta che si avvia, mestamente, sul viale del tramonto.
[-]
|
|