Come è noto, negli ultimi anni la tecnica del found footage associata a prodotti di fiction è andata sempre più diffondendosi, soprattutto per gli ovvi vantaggi che offre a cineasti esordienti con scarsità di mezzi. Gli autori di quest’opera, tuttavia, hanno saputo sfruttare intelligentemente il genere, inscrivendo la storia in una tematica che, seppur non nuova, è di sicuro spessore ed interesse, ovvero la riflessione metacinematografica sull’atto del guardare/registrare.
Max, un giovane cineasta con difficoltà relazionali, compra degli occhiali con microcamera incorporata attraverso i quali riprenderà costantemente ciò che vede.
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Come è noto, negli ultimi anni la tecnica del found footage associata a prodotti di fiction è andata sempre più diffondendosi, soprattutto per gli ovvi vantaggi che offre a cineasti esordienti con scarsità di mezzi. Gli autori di quest’opera, tuttavia, hanno saputo sfruttare intelligentemente il genere, inscrivendo la storia in una tematica che, seppur non nuova, è di sicuro spessore ed interesse, ovvero la riflessione metacinematografica sull’atto del guardare/registrare.
Max, un giovane cineasta con difficoltà relazionali, compra degli occhiali con microcamera incorporata attraverso i quali riprenderà costantemente ciò che vede. Contemporaneamente, è alle prese con la realizzazione di un documentario su una cellula di anarco-insurrezionalisti i quali, a seguito di una serie di arresti, lo sospetteranno di essere un infiltrato.
Tutto ciò ci viene mostrato attraverso un documentario sul protagonista, motivato da eventi tragici che verranno svelati in seguito, nel quale si alternano immagini riprese da Max e pareri di esperti.
Facendo sapientemente tesoro dell’eredità di film come “L'occhio che uccide” (ma si potrebbero ravvisare attinenze anche con “Il cameraman e l’assassino”, “Tesis” e più in generale con tutto il filone che, in qualche modo, affronta il tema), i registi costruiscono un’opera nella quale il soggetto osservante diviene soggetto osservato attraverso il materiale registrato dal suo stesso “sguardo”.
Il personaggio, affetto da una patologica difficoltà a stabilire connessioni emotive con la realtà circostante, le riversa sul “girato”, operando una selezione dei momenti e delle inquadrature che desidera vedere, una sorta di traslato montaggio (“Cut” appunto) della vita. A questa alienazione affettiva si somma e sovrappone il “cannibalismo” di professionisti e parenti, che, attraverso le immagine riprese da Max, analizzano entomologicamente il ragazzo e l’accaduto.
Tra voyerismo, sessualità e politica, la storia, pur senza perdere ritmo, scorrevolezza ed intensità, è foriera di riflessioniprofonde e complesse.
Decisamente una buona prova, che ci fa ben sperare nei futuri progetti degli autori.
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