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howlingfantod
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martedì 30 ottobre 2012
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due, tre, mille storie zen
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Una storia zen: “guarda che carino, un amico che si è ricordato di te” (dice la madre sulla tomba del figlio morto e ucciso proprio dal visitatore sconosciuto che era venuto pensandolo vivo per estorcergli i soldi o amputarlo).
Seconda storia zen: la sedicente madre dice al presunto figlio: “piantami un albero e quando sarò morta seppelliscimi accanto a un pino in riva al mare”. Al figlio alla fine del dolore, del travaglio della catarsi non rimane che annaffiare un pino in riva al mare che crescerà ugualmente e osservare a noi spettatori, osservare un incerta alba sfocata in una camera blu come tutto il film del resto (stupenda la fotografia) mentre le auto stanno attraversando un ponte.
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Una storia zen: “guarda che carino, un amico che si è ricordato di te” (dice la madre sulla tomba del figlio morto e ucciso proprio dal visitatore sconosciuto che era venuto pensandolo vivo per estorcergli i soldi o amputarlo).
Seconda storia zen: la sedicente madre dice al presunto figlio: “piantami un albero e quando sarò morta seppelliscimi accanto a un pino in riva al mare”. Al figlio alla fine del dolore, del travaglio della catarsi non rimane che annaffiare un pino in riva al mare che crescerà ugualmente e osservare a noi spettatori, osservare un incerta alba sfocata in una camera blu come tutto il film del resto (stupenda la fotografia) mentre le auto stanno attraversando un ponte.
Questa pietà rovesciata: la sedicente madre sopporta il dolore e lo riscatta, misterioso e incomprensibile come lei, come una madonna lei che accoglie il figlio (nell’incesto, che poi incesto non è) lo dimentica e lo abbandona (chissà perché) e si porta con sé il suo stesso mistero indecifrabile e illuminante come un Haiku. Mistero che non è ma che è il seme della vendetta leit motiv del film e sulla quale tutto è imperniato, mistero funzionale allo scopo del film, nel quale la sedicente madre non è che in effetti la madre di una vittima di Sang jo l’amputatotre, venuta lei stessa per vendicare con le stesse armi dell’aguzzino, il dolore della perdita del vero figlio. La sedicente madre assorbe il figlio in sè, il figlio non si redime non si riconosce subito nella madre e non ha un padre, non ha il cielo, ha la terra, è la madre che si erge su tutto come una santa, come una mistica, paga il dolore del mondo, espiando le colpe di tutti nell’ottica della vera madre celeste per il figlio carnefice e che nel finale, con l’ultimo colpo di scena di sceneggiatura è riscattata nell’ottica del figlio seminatore di dolore, figlio che poi non è e in questa finzione che avvolge il tutto cosa rimane: la pietà, il dolore, proprio e comune di tutti coloro che Sang Jo ha fatto soffrire, ecco la pietà, forse di noi che guardiamo? O/e di Sang Jo al quale non rimane che annaffiare il pino dove è sepolta la falsa madre e osservare da lontano, forse con i nostri stessi occhi quell’alba incerta.
Il dolore, il peccato la colpa l’espiazione e la pietà che raccoglie tutto nella catarsi filmica naturalmente sono i temi di questa fiaba nera dell’”asceta kim ki duk “ i soldi sono l’inizio e la fine di tutto, dell’amore dell’odio del rancore della gelosia, della vendetta, del male” quale messaggio politico più forte in un modo che meno politico non si può, in una discesa agli inferi e purificazione.
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b.b.laura
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lunedì 22 ottobre 2012
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bel film ma.........
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senza dubbio un ottimo film ma sinceramente troppo violento,alcune scene ho fatto fatica a guardale!
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aloisa clerici
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sabato 20 ottobre 2012
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pietà: alla ricerca del limite
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Il linguaggio cinematrografico al quale è avvezzo il pubblico italiano è lontato da qui, anche se il coreano Kim Ki Duk è già riuscito a farsi largo in occidente con il poetico Ferro 3, (Leone d’Argento 2004), La sararitana, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Time, per arrivare fino a Pietà, il suo diciottesimo (Leone d’oro Venezia 2012).
Girato in un sobborgo di Cheonggyecheon, a Seoul, luogo che il regista ha conosciuto e vissuto realmente per alcuni anni della sua vita, il film racconta la storia di Kang-do, trentenne spetato e violento, che alle dipendenze di un usuraio, riscuote i suoi debiti tra la povera gente facendo sfoggio di metodi feroci e sadici.
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Il linguaggio cinematrografico al quale è avvezzo il pubblico italiano è lontato da qui, anche se il coreano Kim Ki Duk è già riuscito a farsi largo in occidente con il poetico Ferro 3, (Leone d’Argento 2004), La sararitana, Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Time, per arrivare fino a Pietà, il suo diciottesimo (Leone d’oro Venezia 2012).
Girato in un sobborgo di Cheonggyecheon, a Seoul, luogo che il regista ha conosciuto e vissuto realmente per alcuni anni della sua vita, il film racconta la storia di Kang-do, trentenne spetato e violento, che alle dipendenze di un usuraio, riscuote i suoi debiti tra la povera gente facendo sfoggio di metodi feroci e sadici. È un uomo gelido, crudele, pericoloso e temuto. Improvvisamente appare nella sua vita una donna che afferma di essere sua madre e gli chiede perdono (o pietà) per averlo abbandonato alla nascita, un torto che ha visto il ragazzo costruirsi una vita in solidudine, in balia di una devastante ignoranza emotiva che lo ha condotto verso la disumanità e il male. Kang-do inizialmente si appella a tutta la sua spietatezza per offenderla, ma dopo avere cercato verifiche, prove sulla sincerità della donna, è costretto a rimettere in discussione tutto, e nemmeno troppo gradualmente, finisce per aprirsi e accettarla.
Pietàè un film indubbiamente importante e soprattutto potente, la cui partenza è la denuncia della perdita dei valori della società contemporanea vittima del denaro, attraversa uno stile che sfiora la tragedia greca per approdare ad un elevato grado di spiritualità, la ricerca della redenzione e del perdono. Perché dove finisce la pietà inizia la vendetta, ma anche viceversa.
La narrazione è fluida, di grande intensità e potenza espressiva e vanta una fotografia impeccabile, curata nei colori, grigi e polverosi, nella materialità dell’acciaio delle botteghe, nella vischiosità del fango dei vicoli, nella simbologia di alcuni oggetti che a tratti, fanno da elementi-conduttori (il coltello violenza/pietà, il coniglio speranza/destino, il maglione destino/vendetta, l’albero vita/morte).
Lo spettatore è chiamato a partecipare, a compiere uno sforzo emotivo non da poco, resistendo alla costante sensazione di disturbo che si sviluppa durante il dipanarsi della storia, che si fa assai più complessa e ardita nella seconda parte. Qui i meccanismi di pietà e vendetta si incastrano, si collegano, si sdoppiano e costringono a ragionare, a riflettere su più tematiche, una delle quali è il limite. I personaggi sono vittime e carnefici, si muovono nelle loro vite come burattini senza memoria, guidati dalle diaboliche conseguenze che il malaccorto uso del denaro porta nelle relazioni umane nella società contemporanea capitalista. L’espressività dello stile visivo del film si esprime definitivamente nell’ultima scena, in un’immagine di straordinaria forza.
Il fascino di questo film, sta nel riuscire a svelare e identificare il bene, individuare quale possa essere il confine tra speranza-amore e il male-destino, la delicatezza di dettagli che muovono sentimenti di strazio talmente profondi da creare sgomento e fermarsi a pensare.
C’è da augurarsi che, a questo giro, la gente non si faccia intimorire dall’”imponenza” di quest’opera, già intuibile dal titolo, dalla locandina ispirata chiaramente al capolavoro di Michelangelo, opera che simboleggia il dolore umano. Ci si augara invece, che sia proprio lo stesso coraggio e lo stesso fervore che è stato necessario al regista per crearla, a condurne alla visione il pubblico. Perché come si evince dalle sue parole "Per spiegare il buio, il nero, bisogna presentare la luce, il bianco. La violenza e la crudeltà nei miei film serve a questo, a poter raggiungere il bianco".
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marco capraro
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venerdì 19 ottobre 2012
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il ritorno di kim ki duk
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"Pietà" segna il ritorno sulla scena cinematografica di Kim Ki Duk, scomparso per tre anni in seguito all'incidente sul set di "Draem".
Quelle di Kim Ki Duk non sono semplici pellicole, e "Pietà" colpisce senz'altro per il suo significato più intimo. E' una metafora a schiaffo nei confronti del denaro, metafora che intende rivelarne la doppia faccia, attraverso il dramma di un usuraio che, dopo trent'anni, incontra la sua "presunta" madre, tornata chiedendo perdono. Cos'è in realtà il perdono? Kim Ki Duk fa della pietà non un semplice sentimento di concessione e comprensione, quanto un percorso di redenzione.
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"Pietà" segna il ritorno sulla scena cinematografica di Kim Ki Duk, scomparso per tre anni in seguito all'incidente sul set di "Draem".
Quelle di Kim Ki Duk non sono semplici pellicole, e "Pietà" colpisce senz'altro per il suo significato più intimo. E' una metafora a schiaffo nei confronti del denaro, metafora che intende rivelarne la doppia faccia, attraverso il dramma di un usuraio che, dopo trent'anni, incontra la sua "presunta" madre, tornata chiedendo perdono. Cos'è in realtà il perdono? Kim Ki Duk fa della pietà non un semplice sentimento di concessione e comprensione, quanto un percorso di redenzione. L'intento non è quello di voler glorificare la violenza o il sentimento della pietà, quanto quello di redimerlo.
E' un film difficile, complesso e crudo a cui andrebbe concessa più di una visione per poterlo comprendere, e Kim Ki Duk ancora una volta ci regala un capolavoro cinematografico di grande valore.
La visione di "Pietà", dopo il dubbioso "Dream", e dopo lo studio dell'incredibile mockumentary "Arirang", conferma il talento di un regista coreano molto più affermato in Europa di quanto non lo sia invece nel proprio paese.
Il Leone D'oro è senza orma di dubbio meritato.
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lionora
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giovedì 18 ottobre 2012
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non ha pità per lo spettatore
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Per quanto sia un ottimo film, non solo non lo guarderei mai più, ma penso anche, sinceramente, che sia dimenticabile. Eccessivo in tutto, fin dalla prima scena, sconvolge a tal punto lo spettatore, che dopo puoi mostragli qualsiasi cosa ( cannibalismo, violenza su uomini e animali, stupro,.. e chi più ne ha più ne metta) lasciandolo impassibile. Tralasciata la struttura della vendetta (davvero spiazzante), per il resto il film sa molto di già visto e la morale (i soldi rovinano tutto e bla bla) è veramente scontata ed insopportabile.
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kill bill vol 2
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venerdì 12 ottobre 2012
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la pietà invece della vendetta
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Nella scena finale la madre, inizialmente mossa dal desiderio di vendetta, sente nel suo cuore pietà e per un momento si pensa che potrebbe perdonare Kang-do e tenerlo come un vero figlio al posto del suo che è morto. L'immagine di Kang-do, la madre e il vero figlio stesi sulla nuda terra è di una potenza espressiva sui sentimenti più di mille parole.
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paride86
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giovedì 11 ottobre 2012
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mi aspettavo di più
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"Pietà" è certamente un buon film, ma decisamente inferiore a ciò che mi aspettavo, soprattutto dopo il Leone D'Oro a Venezia.
Di buono c'è che finalmente Kim Ki-Duk è tornato a fare del cinema come si deve, con una storia interessante e degli sviluppi non banali; non mi sono piaciuti, invece, l'uso della camera a spalla e dello zoom, l'attenzione quasi morbosa per la sessualità del protagonista e una certa mancanza di senso d'insieme, soprattutto nella prima parte.
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"Pietà" è certamente un buon film, ma decisamente inferiore a ciò che mi aspettavo, soprattutto dopo il Leone D'Oro a Venezia.
Di buono c'è che finalmente Kim Ki-Duk è tornato a fare del cinema come si deve, con una storia interessante e degli sviluppi non banali; non mi sono piaciuti, invece, l'uso della camera a spalla e dello zoom, l'attenzione quasi morbosa per la sessualità del protagonista e una certa mancanza di senso d'insieme, soprattutto nella prima parte.
L'attrice principale è di una bravura e di un'intensità straordinarie: avrebbe meritato lei il premio a Venezia.
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antonello chichiricco
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giovedì 4 ottobre 2012
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senza speranza?
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Senza speranza?
Se trasferissimo questa storia nella frenetica, paranoica cornice sociale dell’alta finanza della City di una qualunque metropoli del Pianeta (nell’economia globale non esiste più Oriente e Occidente) avremmo personaggi sostanzialmente identici a quelli del film di Kim Ki-Duk, con uguali dinamiche e meccanismi mentali: indifferenza, disprezzo, egoismo, gratuita crudeltà, criminogena mancanza di scrupoli, ma… supportati e veicolati da ingannevole bon ton, canonici minuetti, edulcorazioni e imbellettamenti vari. Un elogio dell’ipocrisia elevato a motore-valore indispensabile per sopravvivere/affermarsi a qualunque costo nella giungla umana (sono d’altronde i torbidi leit motiv riscontrabili in millenni di storia del potere).
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Senza speranza?
Se trasferissimo questa storia nella frenetica, paranoica cornice sociale dell’alta finanza della City di una qualunque metropoli del Pianeta (nell’economia globale non esiste più Oriente e Occidente) avremmo personaggi sostanzialmente identici a quelli del film di Kim Ki-Duk, con uguali dinamiche e meccanismi mentali: indifferenza, disprezzo, egoismo, gratuita crudeltà, criminogena mancanza di scrupoli, ma… supportati e veicolati da ingannevole bon ton, canonici minuetti, edulcorazioni e imbellettamenti vari. Un elogio dell’ipocrisia elevato a motore-valore indispensabile per sopravvivere/affermarsi a qualunque costo nella giungla umana (sono d’altronde i torbidi leit motiv riscontrabili in millenni di storia del potere). Viceversa nella feccia disperata e miseranda, nelle putride asfittiche bidonville, tali paradigmi esistenziali allignano crudi e sfrondati da qualunque parvenza di ethos. Nello svolgersi e delinearsi del dramma in molti hanno ravvisato analogie con la tragedia greca, ma mentre nei tragos i personaggi sono eroi mossi da esasperati valori morali qui siamo nel puro essenziale abbrutimento.
Azzeccata la forte simbologia quasi kafkiana dei debitori vessati e storpiati, sempre lavoratori metalmeccanici schiacciati nelle loro stesse presse, torchi, punzonatori idraulici, simboli di un sistema capitalistico che oltre a sfruttarli e alienarli né stravolge e distrugge gli affetti.
Un diffuso istinto di morte o di annichilimento permea tutti i protagonisti del film. Quasi come nell’Edipo a Colono di Sofocle, dove il coro ripete «la sorte migliore è non nascere».
Tra i due protagonisti vedo più spaventoso il lucido cinismo distruttivo della madre più che la gratuita crudeltà del figlio (che via via si sgretola) è terrificante la maschera monoespressiva della donna che nel figlio odia se stessa e non esita ad accanirsi maramaldeggiando sul povero storpiato che ha osato maledirlo, che attribuisce al denaro un valore totale, che inscena per due volte una recita per ingannarlo.
Al contrario degli stucchevoli mielismi e del buonismo retorico a lieto fine di certa rassicurante commedia (di cui più o meno tutti ci compiacciamo) il cineasta coreano ci sbatte in faccia la nostra parte più oscura, trasfigurandola in un cornice così smaccatamente espressionista che in fondo in fondo - apparendoci esagerata - ce la rende altrettanto inverosimile.
Il momento per me più agghiacciante è stato quando, alla scena della madre che canta la ninna nanna, si è aggiunto - nel buio della sala - lo squillo di un cellulare… uno squillo che mi è suonato come una piccola tromba di Gerico…
Antonello Chichiricco
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zoom e controzoom
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mercoledì 3 ottobre 2012
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un altro mondo
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Per apprezzare il senso di un film realizzato da un regista orientale, si dovrebbe poter conoscere profondamente quella cultura : troppo distanti da noi, ne raccogliamo solo aspetti marginali senza saper ricreare le connessioni.
Il mio parere da occidentale non può non prescindere da questa consapevolezza.
Tutto il film è saturo di un grigio che fa miseria, ma la miseria orientale, rassegnata e consapevole, è disposta ad accettare la violenza che inesorabilmente accompagna le vite dei miserabili. Pare che i guizzi di colore rosso inseriti come lame, siano annuncio della violenza dirompente che in un modo o nell'altro avverrà.
Il racconto si svolge in spazi angusti - spazi di lavoro e spazi di vita - oppure in spazi ampi, all'aperto, ma è in quei luoghi dove il rapporto uomo spazio si fa inversamente proporzionale, che si consumano i drammi più violenti e la scena finale, troppo forte per noi per essere accettata.
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Per apprezzare il senso di un film realizzato da un regista orientale, si dovrebbe poter conoscere profondamente quella cultura : troppo distanti da noi, ne raccogliamo solo aspetti marginali senza saper ricreare le connessioni.
Il mio parere da occidentale non può non prescindere da questa consapevolezza.
Tutto il film è saturo di un grigio che fa miseria, ma la miseria orientale, rassegnata e consapevole, è disposta ad accettare la violenza che inesorabilmente accompagna le vite dei miserabili. Pare che i guizzi di colore rosso inseriti come lame, siano annuncio della violenza dirompente che in un modo o nell'altro avverrà.
Il racconto si svolge in spazi angusti - spazi di lavoro e spazi di vita - oppure in spazi ampi, all'aperto, ma è in quei luoghi dove il rapporto uomo spazio si fa inversamente proporzionale, che si consumano i drammi più violenti e la scena finale, troppo forte per noi per essere accettata.
Non si può non essere sommersi da tanta violenza, è necessario che si sedimenti perchè si possa raccogliere il significato del dolore come punizione-riscatto. Una doppia lama che per raggiungere lo scopo è tagliente da ambo i lati e non si può ferire senza restare a feriti.
Grandi attori, grande fotografia per un film difficilmente godibile.
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francescapaola
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martedì 2 ottobre 2012
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la donna e la vendetta purificatrice
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In una bindonville, fatta di casupole, lamiere e rottami di tutti i generi, si consuma la vita dei poverissimi. Non c'è spazio per i sentimenti e la pietà.
Hai bisogno di soldi? Puoi assicurarti una mano, un piede e zacchete, senza fiatare e senza morire altrimenti l'assicuratore non riscuote. Così, senza pietà. L'unica risorsa è dunque il corpo umano e su quello i mercificatori hanno
organizzato luati guadagni. Estrema è la miseria, estremi i rimedi. Poi quando l'aguzzino passa all'incasso dei sentimenti,trova la Nemesi. Non basta piangere
chiedere perdono a mani giunte. Non basta. Deve provare su di sè lo stesso dolore che ha provocato. Senza pietà anche per lui. Sarà la Donna che ha dovuto assistere impotente alle mutilazioni, a pianificare una vendetta purificatrice che porti via, senza pietà, il Mercificatore e ricomponga almeno nella tomba quello che è stato violato in vita.
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In una bindonville, fatta di casupole, lamiere e rottami di tutti i generi, si consuma la vita dei poverissimi. Non c'è spazio per i sentimenti e la pietà.
Hai bisogno di soldi? Puoi assicurarti una mano, un piede e zacchete, senza fiatare e senza morire altrimenti l'assicuratore non riscuote. Così, senza pietà. L'unica risorsa è dunque il corpo umano e su quello i mercificatori hanno
organizzato luati guadagni. Estrema è la miseria, estremi i rimedi. Poi quando l'aguzzino passa all'incasso dei sentimenti,trova la Nemesi. Non basta piangere
chiedere perdono a mani giunte. Non basta. Deve provare su di sè lo stesso dolore che ha provocato. Senza pietà anche per lui. Sarà la Donna che ha dovuto assistere impotente alle mutilazioni, a pianificare una vendetta purificatrice che porti via, senza pietà, il Mercificatore e ricomponga almeno nella tomba quello che è stato violato in vita. Pietà per il figlio venduto per 30 denari. Quanto tempo e passato? Sono maturati gli interessi sui 30 denari? Film drammatico e grande poesia. Grazie Maestro.
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