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omero sala
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domenica 28 luglio 2013
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mater dolorosa
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Kang-do è un feroce teppista che riscuote i debiti per conto di uno strozzino. Vive da solo nello squallido appartamento di una casa in decadimento. Il quartiere in cui si muove è in attesa di essere demolito, isola di povertà e degrado circondata dai palazzi pomposi di cemento e cristallo della metropoli aliena che dilaga. I suoi debitori si trascinano come lui nella miseria come topi di fogna intrappolati in lavori subumani, incapaci di alzare la testa, indeboliti e impotenti, rassegnati di fronte al destino immodificabile, chiusi in una gabbia in cui è impossibile sopravvivere, da cui è impossibile evadere.
Kang-do, nato e abbandonato in questo marciume, è figlio e conseguenza di questo disfacimento.
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Kang-do è un feroce teppista che riscuote i debiti per conto di uno strozzino. Vive da solo nello squallido appartamento di una casa in decadimento. Il quartiere in cui si muove è in attesa di essere demolito, isola di povertà e degrado circondata dai palazzi pomposi di cemento e cristallo della metropoli aliena che dilaga. I suoi debitori si trascinano come lui nella miseria come topi di fogna intrappolati in lavori subumani, incapaci di alzare la testa, indeboliti e impotenti, rassegnati di fronte al destino immodificabile, chiusi in una gabbia in cui è impossibile sopravvivere, da cui è impossibile evadere.
Kang-do, nato e abbandonato in questo marciume, è figlio e conseguenza di questo disfacimento. Nessuno lo ha accudito, da nessuno ha avuto cure e affetti; per nessuno ha affetti e attenzioni: è selvatico, misantropo, chiuso, afasico, ottuso, impietoso. Se i debitori dello strozzino non rispettano la scadenza, li massacra freddamente, li strazia senza pietà, li sfigura e li mutila per incassare i soldi dell’assicurazione.
Un giorno si presenta da lui Mi-sun, una piccola dolce donna che dice di essere sua madre.Con tremore ed afflizione gli chiede perdono per averlo abbandonato, con ostinata dolcezza tenta di offrirgli le tenerezze negate, con pazienza accoglie la sua rabbiosa disperazione. L’implacabile seviziatore non le crede, la maltratta, la violenta, la caccia: lei insiste, subisce, ritorna; si addossa le colpe della infelicità e della cattiveria del ragazzo, accetta la condanna dell’emarginazione e del disprezzo, ma si installa silenziosa in casa, riassetta, cuce, fa la spesa, imbandisce i pasti e svolge quieta le umili mansioni di una madre premurosa senza pretendere altro.
A poco a poco l’irremovibile Kang-do cede. La sua incolmabile rabbia, che non è altro che ineliminabile disperazione, trova in quella pacata presenza femminile il risarcimento per amorevolezze mai conosciute. Non si lascia andare, non fa trapelare emozioni, non arriva ad esprimere sentimenti: la sua coriacea anaffettività non glielo consente; ma si abitua alle premure e si affeziona a quell’ombra muta fino al punto di accorgersi che non vuole, non può fare a meno di lei.
Qualcuno (?) entrerà nelle crepe di questa imprevedibile fragilità per applicare la pena del contrappasso, compire la vendetta ed infliggere a Kang-do intrappolato una condanna risolutiva, uccidendogli l’anima.
Appare evidentissima, in una lettura in chiave socio-politica, la feroce critica al mito del progresso e della modernità che infesta il mondo senza rispetto per gli individui, le culture tradizionali, le relazioni, la giustizia sociale; inappellabile è la condanna ad un regime che celebra i fasti del capitalismo globale sommergendo i deboli e lasciandoli ai margini del benessere, massacrati da sacrifici inutili e dissanguati da mafie e usure. L’ambientazione cupa, le inquadrature claustrofobiche e i colori lividi esasperano la disperazione di questa accusa.
Speculare a quella sociale è la rappresentazione delle interiorità. Anche le anime dei personaggi sono perse, si portano dentro il deserto, sono immerse nell’infelicità e oppresse dalla consapevolezza di non avere sbocchi. I poveri lo sono fino all’ottundimento incosciente. Kang-do è inconsapevolmente devastato dalla disperazione che sfocia in furia disumana. La donna nasconde, sotto una maschera di pietà, la voglia di vendetta di un’anima morta dentro, impietosa e spietata fino alla follia.
La storia è disarmonica e un po’ sconclusionata, la trama è improbabile e svolta in modi troppo ruvidi ed essenziali, le vicende appaiono spesso incongruenti, i personaggi hanno evoluzioni incomprensibili e sono tratteggiati sbrigativamente con enfatica crudezza, senza sfumature; il pathos sconfina nell’eccesso; i dialoghi a tratti sono disturbanti per dei didascalismi inutili e quasi ridicoli, le musiche in alcuni momenti debordano. Il manifesto poi, che storpia il titolo originale aggiungendo un accento ed una citazione sviante, è davvero deplorevole.
Ma l’insufficienza di rifiniture compromette appena la carica del film che comunque mantiene l’andamento insensato di una tragedia greca, l’inesplicabile assolutezza di un’epopea, l’immenso fascino illogico del mito (la nemesi, Edipo, Eros e Thanatos, la catabasi senza ritorno) che tocca le corde irrazionali del profondo e sconcerta.
Nel film – insolitamente debordante per l’essenziale regista coreano – si intrecciano aggrovigliati i temi del delitto e del castigo (Dostoevskij), del male (anzi, del Male) e dell’espiazione, della colpa e della ritorsione. Con l’aggiunta di variazioni sull’amore perduto e sull’amore negato, sull’odio e sul sacrificio, sulla dannazione e sulla redenzione. E poi c’è incomunicabilità, esclusione, rabbia, sconfitta, segreti e bugie, ambiguità, morte. Manca solo, appunto, la pietà.
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astromelia
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martedì 23 luglio 2013
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nudo crudo e viscerale
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non dò stelle perchè il film si presta a una doppia lettura,realistico ma con crudeltà,pone lo spettatore di fronte a una dura prova visiva,come del resto tutta la cinematografia orientale ne è satura,i gusti sono gusti comunque,ma di certo la narrazione rispetta il contesto,ci si impegna alla visione proprio per rendersi conto di quanti sono i modi di vivere taluni distanti anni luce,ma nel contempo la full-immersion ci lascia totalmente trasecolati.
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mericol
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domenica 21 luglio 2013
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amore, vendetta, pietà
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Nell’ultimo film di Kim Ki-duk,Leone d’oro a Venezia 2012, tante riflessioni sul dramma della umanità oggi, nella società globalizzata,del profitto ad ogni costo. Pur svolgendosi in Corea è un tema universale quello trattato dal geniale regista sudcoreano.
La storia si svolge a Seul. Alla grandiosità dei grattacieli,spesso sullo sfondo delle inquadrature, fa da contraltare una periferia che più disastrata non si potrebbe immaginare. Il protagonista ,Kang-do, giovane aitante,forse anche bello, è l’esattore di una agenzia che presta denaro ad usura. I debitori inadempienti subiscono violenze indicibili. E nulla frena, in questo perverso compito, il cinico Kang-do al centro di torture spesso al limite dell’immaginabile.
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Nell’ultimo film di Kim Ki-duk,Leone d’oro a Venezia 2012, tante riflessioni sul dramma della umanità oggi, nella società globalizzata,del profitto ad ogni costo. Pur svolgendosi in Corea è un tema universale quello trattato dal geniale regista sudcoreano.
La storia si svolge a Seul. Alla grandiosità dei grattacieli,spesso sullo sfondo delle inquadrature, fa da contraltare una periferia che più disastrata non si potrebbe immaginare. Il protagonista ,Kang-do, giovane aitante,forse anche bello, è l’esattore di una agenzia che presta denaro ad usura. I debitori inadempienti subiscono violenze indicibili. E nulla frena, in questo perverso compito, il cinico Kang-do al centro di torture spesso al limite dell’immaginabile.
Compare la figura di una donna misteriosa (Mi-sun) che lo segue, lo insegue, sembra quasi perseguitarlo. Un atteggiamento che si direbbe da “stalking”, Ancora giovane, ancora bella. Dichiara ad un certo punto di essere sua madre e invoca il suo perdono per averlo abbandonato egoisticamente in tenera età.
Prescindendo dal preciso evolversi della vicenda,che alla fine assume l’andamento del thriller, mentre all’inizio prevaleva il dramma sociale, è l’umanità di questa nostra epoca che induce alla riflessione e alla pietà.
Il capitalismo galoppante con la sua spietatezza, le enormi contraddizioni,le spaventose brutture. I grattacieli della città moderna contro il degrado delle periferie. La ricerca ossessiva del denaro e del profitto da un lato, la miseria più profonda e degradante dall’altro.
Eppure il cinico protagonista avverte il bisogno di amore, quello materno che non ha mai avuto e che ora sembra avere ritrovato, ma anche l’amore più in generale, anche quello fisico,passionale,che probabilmente gli manca, ridotto com’è alla masturbazione.
Amore,dedizione,sensibilità,odio,vendetta. Sì proprio vendetta. Sono sentimenti che possono trasformarsi l’uno nell’altro, senza che ci sia la possibilità di meditarvi, quando la guida del mondo é la ricerca del denaro e del profitto ad ogni costo. Il finale,solo apparentemente ambiguo, costituisce la sintesi di tutta la tematica del film. Mi-sun, che non era la madre di Kang-do ma di una delle sue vittime, si suicida. Kang-do si lascia trascinare senza speranza da un’auto in corsa, in un viale che non sembra avere fine. La madre compie un estremo atto d’amore verso il figlio vero scegliendo di giacere accanto a lui per sempre e un estremo atto di vendetta verso Kang-do al quale aveva dato l’illusione di avere ritrovato l’amore materno, ma perdendolo lo condanna ancora di più alla dannazione. Kang-do compie un atto estremo di espiazione. Lo schermo resta nero per molti secondi mentre risuona una toccante melodia orientale.
Finale più esplicito di altri chiaramente definiti. La interpretazione dei 2 protagonisti principali e ,in particolare, di Cho Min-Soo (la madre), è da applausi.
Difficile ,e nemmeno opportuno, confrontare “Pietà” con le opere precedenti di Kim Ki-duk. Anche in questa c’è un modo di fare cinema, primi piani prolungati e da diverse angolazioni,immagini dei personaggi e dei panorami a tratti sfumate, che entrano nel vivo dell’anima dei protagonisti e poi dello spettatore. Un modo di fare cinema che è prerogativa di pochi eccelsi Autori ..
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rescart
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martedì 25 giugno 2013
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metafora onirica del lavoro e della vita
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Il cinema migliore rimanda sempre a qualcosa di altro e di oltre perché rappresentare la realtà significa fotografarla mettendosi dalla parte dei soggetti ripresi, che in questo caso sono i lavoratori. Ki-Duk ha fatto molti lavori nella sua vita e quindi ha sperimentato sulla sua pelle che cosa significa la fatica del lavoro quotidiano ed il suo rischio, nella duplice e speculare veste del rischio fisico e dell’azzardo morale. L’operaio che lavora con macchinari potenzialmente invalidanti se usati male anche una sola delle milioni di volte in cui il gesto produttivo viene ripetuto, non può perdere mai la concentrazione neanche per un solo istante. Sa che questo è impossibile e che quindi il caso, la “Tuche” di omerica memoria, sarà per otto e più ore al giorno la sua divinità guida e sarà quindi portato a continuare ad onorarla anche nelle periodi di riposo dal lavoro.
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Il cinema migliore rimanda sempre a qualcosa di altro e di oltre perché rappresentare la realtà significa fotografarla mettendosi dalla parte dei soggetti ripresi, che in questo caso sono i lavoratori. Ki-Duk ha fatto molti lavori nella sua vita e quindi ha sperimentato sulla sua pelle che cosa significa la fatica del lavoro quotidiano ed il suo rischio, nella duplice e speculare veste del rischio fisico e dell’azzardo morale. L’operaio che lavora con macchinari potenzialmente invalidanti se usati male anche una sola delle milioni di volte in cui il gesto produttivo viene ripetuto, non può perdere mai la concentrazione neanche per un solo istante. Sa che questo è impossibile e che quindi il caso, la “Tuche” di omerica memoria, sarà per otto e più ore al giorno la sua divinità guida e sarà quindi portato a continuare ad onorarla anche nelle periodi di riposo dal lavoro. L’unica possibilità per affrancarsi da questa idolatria, che lo pone ogni giorno su uno spietato campo di battaglia di una guerra tra lui e la macchina, è la carriera. Ma per fare carriera l’operaio ha come unico ascensore sociale l’obbedienza cieca al padrone, l’asservimento totale. E così passa dall’adorare la dea Tuche ad adorare la “Ananche”, la necessità che lo obbliga ad essere più realista del re. Kang-do è passato da questa parte della barricata. Non sappiamo se prima abbia adorato anche lui la Tuche. Forse sì vista l’abilità con cui lui stesso maneggia le macchine. Lo vediamo all’opera nella sua personale ed efferata idolatria dell’Ananche, una divinità che proprio per la sua natura alla fine arriva a non aver più bisogno neanche del suo servizio. Tuche e Ananche in questo pari sono, come i fratelli della stessa madre (nulla si sa del padre) che fanno la stessa fine. La cultura coreana coreana autentica è qui rappresentata dalla madre rediviva. Anche sotto il giogo di un capitalismo d’importazione, individuabile nella skyline metropolitana che contrasta con la brulicante favela sottostante, lo spirito ancestrale del popolo cova sotto le ceneri e riemerge nell’indomabile figura della madre e nel suo certosino piano di nemesi fortissimamente voluto e liberamente realizzato. Il suo piano, a differenza di quello dei due figli, è sottratto all’idolatria delle due sorellastre Tuche e Ananche, ha solo apparentemente lo stesso epilogo. Perché il vero male non è il suicidio in sé, ma l’inganno che porta con sé quando è attuato come una liberazione. Nella donna il suicidio è una vendetta, un contrappasso una lezione, che il regista coreano ci vuole dare concludendo il film nello stesso modo con cui era iniziato. “In medio stat virtus”, la virtù sta nel mezzo, cioè nel suicidio della madre. Ma il suo film paradossalmente come la realtà è tutt’altro che equilibrato.
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verdelitorale2
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domenica 16 giugno 2013
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capolavoro
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jacopo b98
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giovedì 2 maggio 2013
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kim ki-duk ci regala un duro film sulla vendettà
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Gang Do (Jung.jin) fa il riscossore per un usuraio in Corea. Quelli che non restituiscono i soldi con un interesse del 1000% vengono stuprati e mutilati. Un giorno una donna (Min-soo) che dice di essere sua madre gli si para davanti e gli chiede perdono per averlo abbandonato. Inizia e finisce con un suicidio il film scritto e diretto dal regista coreano più conosciuto nel mondo. Premetto che è un film difficile e complesso da giudicare, nella prima ora di violenza ai limiti della sopportazione, e piuttosto anomalo nella carriera di Kim Ki-duk. È un allucinato e allucinante ritratto della Corea, della sua povertà e della sua disperazione. Ma è anche una terribile storia d’amore che inizia con uno stupro e finisce con un altro suicidio, nonché di una donna che per il protagonista è madre e famiglia e che lo fa crescere e maturare come un bambino, e di cui lui ha bisogno, come le dice, “Non andartene, non posso vivere senza di te”.
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Gang Do (Jung.jin) fa il riscossore per un usuraio in Corea. Quelli che non restituiscono i soldi con un interesse del 1000% vengono stuprati e mutilati. Un giorno una donna (Min-soo) che dice di essere sua madre gli si para davanti e gli chiede perdono per averlo abbandonato. Inizia e finisce con un suicidio il film scritto e diretto dal regista coreano più conosciuto nel mondo. Premetto che è un film difficile e complesso da giudicare, nella prima ora di violenza ai limiti della sopportazione, e piuttosto anomalo nella carriera di Kim Ki-duk. È un allucinato e allucinante ritratto della Corea, della sua povertà e della sua disperazione. Ma è anche una terribile storia d’amore che inizia con uno stupro e finisce con un altro suicidio, nonché di una donna che per il protagonista è madre e famiglia e che lo fa crescere e maturare come un bambino, e di cui lui ha bisogno, come le dice, “Non andartene, non posso vivere senza di te”. Uno sconvolgente thriller alla rincorsa di una risposta che giunge solo nel finale drammatico. Una storia di vendetta da cui però può nascere l’amore come dice la donna: “E così tu, figlio mio, sarai vendicato. Oh però quanto mi dispiace, mio povero Gang Do!”, prima di buttarsi giù dal palazzo. Ovviamente, come in tutto il cinema del regista il film ha un significato profondamente filosofico, che però può essere più difficile da comprendere rispetto che in altre sue opere. È stato presentato a Venezia 2012 dove ha vinto il Leone d’oro per il miglior film, battendo, tra gli altri, Bella addormentata di Bellocchio e The Master di Paul Thomas Anderson.
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pensierocivile
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giovedì 31 gennaio 2013
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il necessario ordito di una vendetta
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Il necessario ordito di una vendetta. Ecco cos'è PIETA', un tuono che fa rimbombare la trilogia della vendetta di Park Chan-Wook, un fulmine che abbaglia e scuote un cielo tutto suo, scatenando l' incubo di una tempesta morale. PIETA' è necessario per scaraventarci in un mondo nero, illusione di un mondo futuristico, fantascienza povera, in realtà, vita indegna di essere vissuta in quel modo, per vittime e carnefici. L'apatia nella violenza è sconvolgente, il destino negato delle vittime è orrore sociale, il dio denaro si muove senza Pietà per nessuno. Kim Ki-duk non lascia scampo, non c'è mai piacere nella vita, c'è solo dolore nella morte.
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Il necessario ordito di una vendetta. Ecco cos'è PIETA', un tuono che fa rimbombare la trilogia della vendetta di Park Chan-Wook, un fulmine che abbaglia e scuote un cielo tutto suo, scatenando l' incubo di una tempesta morale. PIETA' è necessario per scaraventarci in un mondo nero, illusione di un mondo futuristico, fantascienza povera, in realtà, vita indegna di essere vissuta in quel modo, per vittime e carnefici. L'apatia nella violenza è sconvolgente, il destino negato delle vittime è orrore sociale, il dio denaro si muove senza Pietà per nessuno. Kim Ki-duk non lascia scampo, non c'è mai piacere nella vita, c'è solo dolore nella morte. Lo sviluppo assume toni sempre più cupi, tutto è grigio e marcio, la speranza non assomiglia neppure ad un ricordo e la scia di sangue del finale non è un presagio di rinascita. Resta nel cuore il ragazzo disposto a sacrificare entrambe per le mani pur di assicurare un futuro al figlio. Resta anche un unico piccolo rimpianto, una scena madre adeguata al valore del racconto, ma siamo davvero al dettaglio.
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molenga
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giovedì 10 gennaio 2013
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ancora una volta, dalla corea, l'etica della vende
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Kang-do è un "esattore": si guadagna da vivere, nella più totale solitudine, riscuotendo debiti per conto di uno strozzino, il "boss". Durante il lavoro non mostra il minimo scrupolo, invita i debitori a suicidarsi per riscuoterne poi l'assicurazione sulla vita, mutila e sfregia senza ritegno. Un giorno a casa sua si presenta una minuscola signora che afferma di essere la madre che l'ha abbandonato 30 anni prima e qualcosa, nella quotidianità di kang-do, cambia: egli fa di tutto alla donna per farla allontanare da lui ma, dopo aver iniziato a credere alla sua storia, ne diventa lentamente dipendente. Certo, non sa che...
Kim Ki-Duk trionfa aVenezia con questo film che, come aveva preannunciato nello straziante"arirang", abbandona il lirismo di "primavera, inverno.
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Kang-do è un "esattore": si guadagna da vivere, nella più totale solitudine, riscuotendo debiti per conto di uno strozzino, il "boss". Durante il lavoro non mostra il minimo scrupolo, invita i debitori a suicidarsi per riscuoterne poi l'assicurazione sulla vita, mutila e sfregia senza ritegno. Un giorno a casa sua si presenta una minuscola signora che afferma di essere la madre che l'ha abbandonato 30 anni prima e qualcosa, nella quotidianità di kang-do, cambia: egli fa di tutto alla donna per farla allontanare da lui ma, dopo aver iniziato a credere alla sua storia, ne diventa lentamente dipendente. Certo, non sa che...
Kim Ki-Duk trionfa aVenezia con questo film che, come aveva preannunciato nello straziante"arirang", abbandona il lirismo di "primavera, inverno..." e lo stile di "ferro3" per tornare alla crudeltà di "coccodrillo" e 2indirizzo sconosciuto", con la lezione di 15 anni di cinema in più. È, questo pietà", un film che sovrappone dolori insuperabili su uno scenario universale: il regista supera se stesso attraverso l'annientamento dei suddetti dolori nella sporcizia( evidente nell'uso dei colori) e nellalontananza dalla civiltà...civilizzata. Grandissimo.
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andys80
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mercoledì 28 novembre 2012
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la vendetta, architettata con estrema meticolosità
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Un film molto duro, non solo per le scene di violenza e di sesso sgradevoli, ma soprattutto nelle ambientazioni. Tutto si svolge in una baraccopoli, con strade sporche e rifiuti ovunque, e buona parte del film in botteghe di artigiani al limite della vivibilità. La fotografia inoltre è perfettamente in sintonia con i rimanenti elementi del film. Alcune situazioni sono anche ridicole, con personaggi con comportamenti e caratteri da folli. Tutto è ben studiato nel film, i personaggi (basti pensare all'attore protagonista imberbe con un volto quasi da bambino, a voler riflettere la sua mancata infanzia che sta alla base dei suoi squilibri), i caratteri, la scenografia, la fotografia, la recitazione: la protagonista è estremamente brava.
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Un film molto duro, non solo per le scene di violenza e di sesso sgradevoli, ma soprattutto nelle ambientazioni. Tutto si svolge in una baraccopoli, con strade sporche e rifiuti ovunque, e buona parte del film in botteghe di artigiani al limite della vivibilità. La fotografia inoltre è perfettamente in sintonia con i rimanenti elementi del film. Alcune situazioni sono anche ridicole, con personaggi con comportamenti e caratteri da folli. Tutto è ben studiato nel film, i personaggi (basti pensare all'attore protagonista imberbe con un volto quasi da bambino, a voler riflettere la sua mancata infanzia che sta alla base dei suoi squilibri), i caratteri, la scenografia, la fotografia, la recitazione: la protagonista è estremamente brava.
Il film è nel complesso non noioso, si lascia vedere quasi con piacere, anche se molti durante la proiezione hanno abbandonato la sala, ma ciò può essere comprensibile.
Non riesco però a comprendere il Leone d'oro a Venezia 2012, a parer mio negli ultimi tempi in questi festival si stanno premiando film tutto sommato buoni ma che non eccellono (vedi anche Amour a Cannes 2012): ciò significa che il cinema è stanco e non riesce più ad essere innovativo?...o forse entrano in gioco altri parametri oggetto di valutazione da parte della giuria che noi pubblico non riusiamo a comprendere?..insomma: è mai possibile che non c'era un "film migliore" di questo, tra quelli visti a Venezia 2012?...Voglio sperare di si...
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valywally
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lunedì 12 novembre 2012
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labirinto di violenze dove il messaggio si perde
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Il regista merita tutti i premi che ha avuto e che riceverà in futuro. Il film no. Talmente crudo che scortica. Talmente freddo che alla fine non riesce a esprimere in che modo si svolgano certe dinamiche tra i personaggi. E in che modo soprattutto si arrivi alla pietà del finale. Chi deve avere pietà di chi? Il protagonista delle sue vittime? non ce l'ha. La donna che entra nella sua vita verso di lui? Non ce l'ha. Lui verso di lei? A mio parere, non c'è neanche questo. Appurato che è un film che mostra la pietà copme assenza, ci si domanda allora quale sia il messaggio finale. Ma è difficile trovarlo, perchè nel frattempo la bussola è andata persa nei meandri della violenza.
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Il regista merita tutti i premi che ha avuto e che riceverà in futuro. Il film no. Talmente crudo che scortica. Talmente freddo che alla fine non riesce a esprimere in che modo si svolgano certe dinamiche tra i personaggi. E in che modo soprattutto si arrivi alla pietà del finale. Chi deve avere pietà di chi? Il protagonista delle sue vittime? non ce l'ha. La donna che entra nella sua vita verso di lui? Non ce l'ha. Lui verso di lei? A mio parere, non c'è neanche questo. Appurato che è un film che mostra la pietà copme assenza, ci si domanda allora quale sia il messaggio finale. Ma è difficile trovarlo, perchè nel frattempo la bussola è andata persa nei meandri della violenza. Un film che non lascia nulla se non brutte sensazioni. Peccato.
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