Cantando dietro i paraventi

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Un film di Ermanno Olmi. Con Jun Ichikawa, Sally Ming Zeo Ni, Bud Spencer, Yang Li Xiang, Camillo Grassi, Makoto Kobayashi Drammatico, durata 90 min. - Italia 2003. MYMONETRO Cantando dietro i paraventi * * 1/2 - - valutazione media: 2,85 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Leggerezza caleidoscopica e serietà di mestiere. Valutazione 3 stelle su cinque

di Great Steven


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sabato 20 aprile 2019

CANTANDO DIETRO I PARAVENTI (IT/FR/UK, 2003) diretto da ERMANNO OLMI. Interpretato da BUD SPENCER, JUN ICHIKAWA, SALLY MING ZEO NI, CAMILLO GRASSI, MAKOTO KOBAYASHI
Un giovane ed ingenuo studente si ritrova per sbaglio in un teatrino fuori mano dove si comprano trasgressioni e favori sessuali. Un vecchio capitano andorrano sta raccontando le gesta eroiche della vedova Ching, piratessa ai tempi della Cina imperiale (fine 1700). Costei è sposa di un prode corsaro che, per aver accettato di collaborare con l’imperatore, viene assassinato a tradimento. La donna, incapace di accettare questo ignobile oltraggio, si mette a capo della flotta del defunto marito diventandone l’ammiraglio e trasformandosi velocemente nel brigante di mare più temuto e inafferrabile della Cina dei suoi tempi. Depreda addirittura le navi sotto la protezione dell’imperatore, finché accoglie l’invito di pace del nuovo Capo Supremo della flotta imperiale. In tal modo, da barbara ladrona e assassina si tramuta in una perfetta messaggera di pace. Olmi architetta un apologo fiabesco sulla violenza e la guerra (per la quale la vera decisione da prendere è di non farla) ricorrendo ad una preziosa suggestività di immagini, una fotografia sana e asciutta, musiche carezzevoli che accompagnano lo svolgimento lento ma coinvolgente della vicenda, un montaggio assai abile nell’alternanza realtà/finzione teatrale che si mette al servizio di una scenografia posata e robusta e una sceneggiatura che toglie di mezzo tutti i fronzoli per mescolare la poeticità di una verità solida al dramma socio-economico di un sistema orientale le cui propaggini ancora affascinano i cineasti che, come il regista di questo film, amano narrarli dal punto di vista dell’Occidente senza tuttavia mancare di cogliere il punto di giunzione fra la nostra contemplazione e il loro riserbo. La pellicola trova la sua caterva d’energie, presto tradotta in autentica ragion d’essere, nell’azione ben coordinata delle battaglie navali, manometro piratesco che serve ad Olmi per soppesare sulla stessa bilancia artistica il Bene e il Male evitando le ripercussioni retoriche in quanto s’ha da cercare la spiegazione di un valore che accontenti entrambe le parti, in modo però da restituire dignità a una figura femminile del passato (la vedova Ching, appunto) che molti libri di scuola trascurano e alla quale gli autori ridanno linfa vitale grazie alla rievocazione delle sue non indifferenti imprese. Nell’offrirle voce e corpo, J. Ichikawa funziona al meglio della sua recitazione perlopiù sopra le righe, mai svergognata, sempre rimpolpata dal guizzo di rivendicare un onore macchiato e tesa ad una riconquista spasmodica mediante i mezzi più abitualmente maschili. Ma troviamo anche un inedito B. Spencer nelle vesti assolutamente non fuori parte, malgrado alcuni critici le abbiano definite tali, dell’anziano capitano iberico che dapprima intrattiene rapporti da intermediario ambasciatore tra l’ammiraglio Ching e le personalità della flotta governativa e in seguito si volge dalla parte della di lui vedova perché apprende il significato di una lotta collettiva la quale, pur tradendo gli intenti che dapprincipio non volevano violare lo statuto in vigore, riesce ben programmata dal momento che tende a punire con la massima severità possibile chiunque intralci il cammino di una neonata avventuriera, più battagliera e intraprendente che mai. Non delude neppure il quieto C. Grassi a recitare nei panni del saggio nostromo di poche parole. Seguendo un percorso che, analizzando l’intero repertorio, potrebbe benissimo riaprire il discorso bellico de Il mestiere delle armi (2001) e riacquisire alcuni importanti elementi della visionarietà de La leggenda del santo bevitore (1988), Olmi sembra fondere queste due componenti essenziali in un’opera che, grazie ad esse, raggiunge la sua completezza e si esprime quale un profondo pensiero esegetico sul bisogno di un capo, la necessità di non perdere mai l’orgoglio in guerra (mentalità tipica dei guerrieri dell’Estremo Oriente), la tecnica organizzativa che richiede la struttura di un confronto militare, la poesia degli ambienti, del giorno, della notte e dello scorrere implacabile del tempo. La Cina è reinventata dal regista su un lago del Montenegro con l’appoggio della tecnologia digitale. Quel che primeggia al fulcro della sua rappresentazione, più evocato che raccontato, è carico di senso, frutto della memoria combinata con la riflessione e lo stupore. La guerra c’è, ma non si vede: non morti, non combattimenti, né arrembaggi, né feriti. Tutto è stilizzato, anche la recitazione. Chi vuole, cerchi agganci con l’attualità politica (i "pirati onesti" contro i potenti che "legalmente" opprimono e rubano), ma non è indispensabile. Il critico cinematografico G. Canova l’ha definito «delicato come una sinopia, fragile come una pergamena, leggero come un aquilone colorato, solca i cieli del cinema, depositandovi scie di luce folgoranti e improvvise epifanie». Con l’aggiunta di una strizzata d’occhio alla pratica dell’amore libero inteso come vitalità dell’erotismo, il racconto procede spedito sentenziandosi la giusta durata e unendo i contributi tecnici a quelli artistici in un efficace connubio che trasuda una sfilza oltremodo credibile di naturalezza in versi cinematografici. Non c’è un vero e proprio spettacolo che animi una storia che, ad un occhio distratto, può apparire senza capo né coda; infatti il motore che la spinge ad esaltarsi fino a toccare le vette delle più pure sensibilità sta nel suo intimistico dialogo uomo-Natura. Gli si possono rimproverare al massimo la ripetizione delle cadute di tono fra l’inizio e la metà della narrazione e gli indugi metafisici nelle pause in cui compaiono figure non troppo rilevanti per la compostezza complessiva, eppure il sottofondo di denuncia storica e il suo impegno di riabilitazione dei contesti visti al pari di paradigmi evolutivi continuano a sorprendere e a innescare sogni. 4 Nastri d’Argento: soggetto (E. Olmi), fotografia (Fabio Olmi), scene (Luigi Marchioni), costumi (Francesca Sartori). 3 David di Donatello: costumi, scene, effetti speciali (Ubik-Boss Film).

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