rosalinda gaudiano
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venerdì 5 maggio 2023
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il bene esiste, in quel sogno, libero
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Il miglio verde
Possiamo citare “Il miglio verde” come film attualissimo, che media attraverso il racconto valori ,cattiverie, crudeltà, forme di razzismo e violenza gratuita? Credo proprio di si, se analizziamo il film nel suo impatto con la cultura di massa.
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Il miglio verde
Possiamo citare “Il miglio verde” come film attualissimo, che media attraverso il racconto valori ,cattiverie, crudeltà, forme di razzismo e violenza gratuita? Credo proprio di si, se analizziamo il film nel suo impatto con la cultura di massa. Il film racconta una storia, pur limitata in uno spazio, una prigione, ma che apre ad un contesto universale, ad un’umanità che si presenta nelle sue diversità più eclatanti. Diretto e sceneggiato da Frank Darabont, che trae l’idea dal romanzo omonimo di Stephen King, “Il miglio verde”, quattro volte candidato all’Oscar, è l’espressione più semplice e nello stesso tempo complessa di Cinema morale, ponendo allo spettatore domande etiche sul bene e sul male, attraverso le vite dei detenuti e delle loro guardie che sono nel braccio della morte della prigione di Cold Mountain in Louisiana. Il braccio, è nominato appunto il miglio verde , per il colore verde del pavimento. La scena iniziale apre con l’anziano Paul Edgecombe, che soggiorna in una casa di riposo, e che scoppia a piangere mentre guarda una scena del film “Cappello a cilindro”. Dopo 60anni la memoria di Paul è vivida nel ricordo di quando lavorava in quel braccio della morte come capo delle guardie. Non ci sono pause e sospensioni in questo film. La Cinepresa segue tutti i personaggi , li guarda, e mostra un’umanità racchiusa tra quelle mura, dietro le sbarre delle celle, un’umanità in attesa della morte per sedia elettrica. Arlen Bitterbuck, un nativo americano che non apre mai bocca ma parla con lo sguardo. Eduard Delacroix, immigrato francese, che riesce a farsi amico un piccolo topolino. Un giorno arriva nel braccio un killer psicopatico, William Wharton, ammiratore di Billy the Kid, condannato per una strage durante una rapina in banca. Ma tra i condannati spicca John Coffey, omone di colore, imponente, accusato dell’omicidio brutale di due bambine. John, pur nella sua mole gigantesca che incute timore è una persona mite e saggia. Paul Edgecombe è il capo di Brutus Howell, del giovane Dean Stanton, di Harry Terwillinger il più anziano delle guardie , e del sadico Percy Wetmore, giovane disturbato raccomandato di ferro. Uno spazio chiuso il braccio della morte il miglio verde, dove l’inesorabile confronto tra le guardie e i detenuti apre ad una inequivocabile riflessione su un’umanità nelle sue più inopinabili differenze. John Coffey, l’uomo moderato, che viaggia nella luce del bene, suscita subito una sorta d’ammirazione da parte di Paul Edgecombe, che ad un certo punto mette in discussione l’affidabilità della giustizia che ha condannato l’uomo, espressa in verdetti, a volte troppo sommari. Il male assoluto assume la maschera William Wharton, un male che si nasconde e inganna, divorando la fiducia, la lealtà che gli viene concessa da persone ignare, inconsapevoli, che lo accolgono persino alla loro tavola. La cattiveria, nelle sue forme più disumane di crudeltà appartiene a Percy Wetmore. Un film che non smette mai di conquistare e affascinare, nella sua semplice allegoria, e nella metafora che il bene esiste , ma bisogna saperlo percepire nella sua grandezza, in quel sogno dove viaggia libero e incontrastato. E Paul è costretto a “uccidere” il bene , per il ruolo che rappresenta come capitano delle guardie, obbedire ad una realtà maligna, per una condanna assurda inflitta dagli uomini di legge. La pena di morte, quella sedia elettrica che uccide l’omone buono, il gigante dal cuore sincero. Ma è l’ultima esecuzione per Paul , che ha ereditato “il bene” dal mite John, e chiederà il trasferimento in un carcere minorile. Un film potente, senza tramonto, nel suo racconto rigorosamente temporale, in cui spicca, l’interpretazione di Michael Clarke Duncan e come sempre un impeccabile Tom Hanks.
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vepra81
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domenica 28 giugno 2020
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film verde
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Vecchia pellicola ma sempre davvero molto bella ed appassionante. Grandi gli attori che portano lo spettatore ad entrare nella storia e vivere ogni tipo di emozione che ne traspare.
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vepra81
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domenica 28 giugno 2020
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film verde
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Vecchia pellicola ma sempre davvero molto bella ed appassionante. Grandi gli attori che portano lo spettatore ad entrare nella storia e vivere ogni tipo di emozione che ne traspare.
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tommy
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sabato 20 luglio 2019
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un capolavoro da non perdere!
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E' una delle pietre miliari del cinema.
Indimenticabile.
Con la famiglia di tanto intanto lo rivediamo con tanta gioia.
Un capolavoro che non si può perdere.
Mi dispiace però che mymovies non ha votato con 5 stelle.
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domenica 17 febbraio 2019
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3,5 su 5 è un voto troppo basso
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3,5 su 5 è un voto irrispettoso per un capolavoro del genere
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greatsteven
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sabato 24 febbraio 2018
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king adattato stupendamente da darabont, con un hanks al meglio della sua forma.
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IL MIGLIO VERDE (USA, 1999) di FRANK DARABONT. Con TOM HANKS, DAVID MORSE, MICHAEL CLARKE DUNCAN, BONNIE HUNT, JAMES CROMWELL, MICHAEL JETER, GRAHAM GREENE, SAM ROCKWELL, DOUG HUTCHISON, BARRY PEPPER, JEFFREY DEMUNN, HARRY DEAN STANTON, DABBS GREER, EVE BRENT, WILLIAM SADLER, PAUL MALCOMSON, GARY SINISE 1935. Nel braccio della morte del penitenziario di Cold Mountain, lavorano quattro secondini: il capo responsabile Paul Edgecombe, Brutus "Brutal" Howell, Harry Terwilliger e Dean Stanton. Assieme a loro v’è anche l’irascibile e petulante Percy Wetmore, guardia carceraria raccomandata in quanto nipote del governatore dello Stato. Fra i detenuti vi sono il cajun francese Eduard Delacroix e un capo cherokee.
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IL MIGLIO VERDE (USA, 1999) di FRANK DARABONT. Con TOM HANKS, DAVID MORSE, MICHAEL CLARKE DUNCAN, BONNIE HUNT, JAMES CROMWELL, MICHAEL JETER, GRAHAM GREENE, SAM ROCKWELL, DOUG HUTCHISON, BARRY PEPPER, JEFFREY DEMUNN, HARRY DEAN STANTON, DABBS GREER, EVE BRENT, WILLIAM SADLER, PAUL MALCOMSON, GARY SINISE 1935. Nel braccio della morte del penitenziario di Cold Mountain, lavorano quattro secondini: il capo responsabile Paul Edgecombe, Brutus "Brutal" Howell, Harry Terwilliger e Dean Stanton. Assieme a loro v’è anche l’irascibile e petulante Percy Wetmore, guardia carceraria raccomandata in quanto nipote del governatore dello Stato. Fra i detenuti vi sono il cajun francese Eduard Delacroix e un capo cherokee. Arriva un giorno il gigante di carnagione scura John Coffey, uomo apparentemente ritardato ma reo d’aver violentato e ucciso le figlie di un fattore. Poco dopo giunge nel braccio anche William "Wild Bill" Wharton, maniaco sessuale sguaiato e provocatorio. Dopo l’esecuzione del nativo americano, Percy non manca di creare problemi, rompendo tre falangi a Delacroix (che odia) e addirittura provocando un guaio irreparabile durante l’esecuzione del francese, evitando di bagnargli la testa con la spugna affinché la corrente scorri nel copro del condannato (la pena capitale viene eseguita tramite la sedia elettrica). Ma anche Wild Bill, che Wetmore teme per via di un’inattesa aggressione, non è da meno: sputa saliva in faccia a Paul e un tortino nel viso di Brutal, urina sui piedi di Harry e per poco non strangola Dean con le manette, appena incarcerato. L’unico a rimanersene tranquillo è Coffey, uomo fragile che ha paura del buio malgrado la sua stazza, insieme a Delacroix, che addestra un topo a far girare un rocchetto e che battezza Mr. Jingles. Paul arriva a comprendere, col passare del tempo, che John aspetta con pazienza e serenità il giorno della sua esecuzione perché si sa innocente e dunque, contrariamente a quanto sostengono i genitori delle bambine ammazzate e l’avvocato stesso che lo difese al processo, conquista con la sua inesauribile umanità la fiducia dei secondini compiendo vari miracoli: guarisce Paul da un’infezione alle vie urinarie che gli impedisce minzioni non dolorose e di far l’amore con la moglie Jan, fa risorgere Mr. Jingles dopo che Wetmore l’ha schiacciato con un piede e soprattutto, il più grande e complicato fra tutti, cura il tumore al cervello di Melinda, la moglie di Warden Hal Morse, il direttore del penitenziario di Cold Mountain e diretto superiore di Paul e degli altri agenti di polizia. Dopo quest’ultima impresa molto rischiosa sia per Coffey (che, a differenza degli altri due precedenti miracoli, non vomita dalla bocca nugoli di vespe) sia per i secondini che sono costretti a scortarlo fuori dalla galera per permettergli di compiere il miracolo, il gigante buono punisce Wetmore e Wharton passando il nugolo di vespe nella bocca del primo che, in un raptus, spara a morte al secondo, per poi venire ricoverato in un ospedale psichiatrico. La scena clou arriva quando John, chiedendo la mano a Paul, gli mostra come sono andate in realtà le cose: non fu lui ad assassinare le due bimbe, ma Wharton, assunto dalla famiglia contadina come aiutante, che le «uccise col loro amore», nel senso che, se una delle due avesse urlato, lui avrebbe fatto del male alla sorella. A livello legale, Paul non può far niente per salvare l’ingiustamente condannato John da quanto lo aspetta, ma vorrebbe far qualcosa prima che la sentenza venga eseguita: due giorni prima, alla presenza di Brutal, il migliore amico di Paul da sempre, John confessa d’essere stanco di percepire, grazie ai poteri magici che il Signore stesso gli ha donato, il dolore che v’è nel mondo e pertanto desidera farla finita, ma chiede di poter vedere una pellicola con Fred Astaire e Ginger Rogers. Sarà proprio quel film che a Paul, una volta invecchiato e rimasto vedovo e perduti tutti i suoi amici e colleghi, rievocherà il ricordo di quel servo di Dio che lui mandò senza nessuna giustificazione plausibile a morire nonostante la sua non colpevolezza, e racconta tutta questa storia in superficie assurda ma reale all’amica e compagna d’ospizio Ellie, a cui rivela anche d’aver compiuto 108 anni poiché Coffey, appena prima di esser giustiziato, gli aveva passato una parte di sé stringendogli nuovamente la mano, e non si trattò d’un dono: per aver mandato a morire un innocente, la sua condanna sarà quella di vivere sufficientemente a lungo per veder andarsene tutte le persone a lui care. Ma Paul Edgecombe si conforta pensando che anche per lui arriverà il momento di percorrere il miglio verde, come fanno tutti gli esseri umani, presto o tardi, accusati a torto o a ragione. Tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King (1996), la sua più eccelsa opera di quel decennio e uno dei suoi più toccanti in assoluto, ne rispetta la raffigurazione di un Gesù Cristo di pelle scura che tenta di diffondere umanità attorno a sé e di aiutare chi si trova in condizione di disperato bisogno senza pretender alcunché in cambio, e dell’uomo che lo conosce per caso e giunge a comprenderne le motivazioni fin nel profondo dell’anima, un mestierante che svolge le sue mansioni con perizia e incrollabile forza di volontà, ma evita di fermarsi di fronte alle apparenze ingannevoli per penetrare oltre i misteri che avvolgono tanto l’Umanità quanto i singoli uomini e donne stessi. È, con ogni probabilità, il miglior adattamento di un libro di King per la fedeltà con cui è stato trasposto sul grande schermo e la somiglianza veridica che ha permesso ad un F. Darabont (anche co-produttore insieme a David Lardes) in forma smagliante di creare un piccolo capolavoro che alterna toni varianti fra il grottesco, il comico e il patetico (l’ammaestramento del topo; le prove con l’inserviente Toot che scherza con maleducazione divertita sul fatto che il condannato finisca letteralmente arrosto) a tratti che raggiungono la commozione (la guarigione di Melinda Morse con tutta la sua preparazione e tutto ciò che ne consegue dentro al Miglio; la promessa fatta a Eduard di Mouseville, immaginaria città circense dei roditori; gli ultimi giorni di vita dell’omone nero, conditi con un tocco magico e delizioso di lucidità emotiva), fondendo il tutto in un’epicità che tenta di spiegare, riuscendoci appieno, il perché del Male sul nostro pianeta, come mai gli uomini diventino cattivi e lo pratichino e come mai certi altri (compresi i secondini, che hanno a che fare quotidianamente con la gestione della violenza) lo contrastino contrapponendovi l’affetto, l’eros e la carità, tanto per citare un collega non contemporaneo di King come Clive Staples Lewis. Uno straordinario T. Hanks, con la magnifica voce italiana di Roberto Chevalier, è affiancato da un cast di attori non famosissimi, ma tutti degni del personaggio che interpretano per l’immenso impegno che vi profondono, a partire dal Brutal di D. Morse per passare al Dean di B. Pepper, all’Harry di J. DeMunn, alla fedele e amata consorte di B. Hunt, al pragmatico e melanconico direttore di J. Cromwell, al giureconsulto di G. Sinise (il tenente Dan di Forrest Gump, che cinque anni dopo ricompare al cinema di fianco ad Hanks, anche se soltanto per pochi minuti di proiezione), perfino a personaggi negativi come il sadico Percy di D. Hutchison e il Wild Bill pluriomicida di S. Rockwell. Tutti eccezionali. Dimenticavo il co-protagonista, l’eccellente M. C. Duncan (1957-2012), miracolo vivente che elargisce senza riserve e con bontà (ma pure giustizia) infinita i poteri soprannaturali che gli servono per sanare i malanni che infettano il globo, purché il suo intervento sia tempestivo, giacché, nel suo primo dialogo col «capo Edgecombe», asserisce che «ho cercato di rimediare, ma era troppo tardi». Ottime musiche di Thomas Newman, che un momento sottolineano la leggerezza del momento e in un altro ne accentuano la tensione crescente fino alla sua graduale esplosione, tensione che soltanto un maestro del thriller come King è in grado di mettere nero su bianco. E Darabont se ne è dimostrato un validissimo adattatore trasformando in immagini audiovisive 376 pagine di pathos, lucentezza, candore e spiegazione del senso della violenza. Due unici appunti: un mancato accenno al perché Wild Bill e Delacroix siano stati destinati al braccio della morte (nel libro l’autore spiega che vi vengono mandati rispettivamente per lo stupro e l’omicidio di una donna adulta e per la non voluta esplosione di una residenza a causa di petrolio incendiato che ha provocato la morte di sette persone) e alla scomparsa di Jan, la moglie di Paul, che muore nel 1956 a causa di un incidente d’autobus, ma l’omissione credo sia motivata appieno dal doppio motivo di non appesantire la forza visiva e perforante della pellicola e di non togliere ad essa quel che di fantasy possiede, appunto per evitare di smarrire per strada fondamentali frammenti tipici del genere. Candidato a quattro premi Oscar.
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gustibus
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venerdì 20 gennaio 2017
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film che fa..sognare!
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Sono restio alle 5stelle...ma qui siamo nei pressi del film perfetto...fa sognare...ti emoziona...a tratti ti incanta...adoro i film lunghi..qui le 3ore non annoiano mai.La REGIA da OSCAR la musica da OSCAR...la fotografia da OSCAR...il cast partendo da Hanks E' sfolgorante!....insomma tutto fila alla perfezione...questo si chiama CINEMA e se e' AMERICA NN MI FREGA...quando vogliono loro hanno inventato a fare CINEMA..il resto non conta...un CAPOLAVORO...da vedere quando si e'tristi!!!!!
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elgatoloco
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giovedì 5 maggio 2016
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king meglio sulla pagina, comunque
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Questo"Green Mile"filmico è probabilmente tra le versioni più azzeccate di trasposizioni di King, a parte"Carrie"di Brian de Palma. Con indubbia professionalità, il regista, anche servendosi di una certa lentezza anche nell'uso del montaggio(ma la vicenda è ambientata in anni nei quali la sequenza veloce, oltre a non essere capita-apprezzata, spesso non era neppure contemplata), riesce a dar spessore a questo capolavoro di Stepken King, i cui romanzi, in complesso, dunque "tollerando"le eccezioni citate, sono ,igliori sulla pagina che sugli schermi, come dimostra anche l'unico tentativo registico dello stesso scrittore, prontamente(!?!)mai più iterato.
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Questo"Green Mile"filmico è probabilmente tra le versioni più azzeccate di trasposizioni di King, a parte"Carrie"di Brian de Palma. Con indubbia professionalità, il regista, anche servendosi di una certa lentezza anche nell'uso del montaggio(ma la vicenda è ambientata in anni nei quali la sequenza veloce, oltre a non essere capita-apprezzata, spesso non era neppure contemplata), riesce a dar spessore a questo capolavoro di Stepken King, i cui romanzi, in complesso, dunque "tollerando"le eccezioni citate, sono ,igliori sulla pagina che sugli schermi, come dimostra anche l'unico tentativo registico dello stesso scrittore, prontamente(!?!)mai più iterato... La vicenda è da prendere o lasciare, senza voler insister su strani dettagli, strane"pre-monizioni"(?)interpretative. Nella civiltà etica di King, che si esprime nel suo grande amore per gli animali e le persone"in difficoltà"per vari e diversissimi motvi, la figura di John il"benefattore sciamanico", ingiustamente condannato a morte, un testo da mettere ai primi posti. Al cinema, le cose sono diverse, ma non tutto è peggio, anzi. Per le trasposizioni vale il problema dell'aderenza pedissequa o invece della creatività vera che qui, pur se non sempre, riesce ad esprimersi compiutamente. El Gato
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alessia.mary.j
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martedì 26 aprile 2016
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immenso
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Nulla da aggiungere alle innumerevoli recensioni positive. Ormai lo conosco a memoria, è tutto perfetto.
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fabio57
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martedì 8 marzo 2016
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grande
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Monumentale ed epico film tratto da un bellissimo romanzo di S.King edito a puntate. Il dramma carcerario si fonde alla vena soprannaturale, che contraddistingue l'autore. Oltre ad essere una convinta e accorata condanna della pena capitale, è una riflessione sulla natura dell'uomo. In un ambiente particolare come può esserlo solo il braccio della morte, emergono i vizi tanti e le virtù poche, di un'umanità che a contatto così ravvicinato con la fine, reagisce in modo imprevedibile, chi con sgomento, diffidenza o con paura, chi con ossessione e pazzia, chi addirittura con crudeltà. La storia è avvincente e malgrado la lunghezza, non è mai noiosa,i tempi sono giusti,perché sono quelli di un penitenziario,dove sono l'attesa e il dolore a scandirli spietatamente.
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Monumentale ed epico film tratto da un bellissimo romanzo di S.King edito a puntate. Il dramma carcerario si fonde alla vena soprannaturale, che contraddistingue l'autore. Oltre ad essere una convinta e accorata condanna della pena capitale, è una riflessione sulla natura dell'uomo. In un ambiente particolare come può esserlo solo il braccio della morte, emergono i vizi tanti e le virtù poche, di un'umanità che a contatto così ravvicinato con la fine, reagisce in modo imprevedibile, chi con sgomento, diffidenza o con paura, chi con ossessione e pazzia, chi addirittura con crudeltà. La storia è avvincente e malgrado la lunghezza, non è mai noiosa,i tempi sono giusti,perché sono quelli di un penitenziario,dove sono l'attesa e il dolore a scandirli spietatamente.
Attori strepitosi, sceneggiatura impeccabile, regia da oscar
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