reservoir dogs
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giovedì 30 dicembre 2010
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l'apparente moralità di un bidonaro
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Alfredo vive di truffe, insieme ad altri due bidonari; Picasso e Roberto vivendo una vita di espedienti ai danni di poveri ingenui.
Durante la notte di capodanno alla festa di un bidonaro arricchito Alfredo percepisce il suo estraneamento a quel mondo e ormai stanco di quella vita vuota e poco gratificante, cerca una via d'uscita e la trova nella figlia che non vedeva da tempo; redentrice ed innocente.
Ma la truffa che è sempre stata amica d'Alfredo, si ritorce contro l'uomo proprio alla prima volta in cui voleva "aiutare"qualcuno; la figlia, lasciandolo agonizzante sul ciglio della strada.
Un Fellini che ci mostra la mostruosità nascosta dietro il reale quotidiano(Bernardi), che osserva una società che si incammina verso il boom economico, in cui un uomo sembra quasi aver scoperto la sua moralità per essere poi spazzato via dal cinismo e dall'inganno di cui l'uomo stesso è affetto.
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carloalberto
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mercoledì 13 gennaio 2021
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una commedia amara senza il lieto fine
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Il bidone in apparenza è la storia di una serie di truffe e di raggiri che i furbi da sempre perpetrano ai danni degli ingenui, quasi fosse una novella del Boccaccio adattata ai tempi moderni. In realtà è la metafora dello scontro epocale tra due civiltà, di cui si profilava già netto, negli anni ’50, l’esito. Da una parte, il mondo contadino, ormai al tramonto, perduto nei suoi sogni arcaici di madonne e di miracoli, in una campagna già semi abbandonata, abitata da vecchi e da donne, con i giovani emigrati nelle fabbriche del nord o finiti ad ingrossare le fila dei borgatari delle periferie, dall’altra, la moderna società metropolitana, nata dalla improvvisa industrializzazione, popolata da masse di diseredati e di emarginati, in cui emergevano per amoralità e furbizia i piccoli parassiti opportunisti ed arraffoni, i nuovi mostri delle realtà cittadine del dopoguerra, poveracci assetati di soldi e disposti a tutto per arricchirsi, a calpestare gli umili e a sfruttare la credulità degli innocenti per raggiungere il successo, il potere o soltanto quelle briciole di benessere chimerico che il boom economico prometteva a tutti ma che riservava a pochi.
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Il bidone in apparenza è la storia di una serie di truffe e di raggiri che i furbi da sempre perpetrano ai danni degli ingenui, quasi fosse una novella del Boccaccio adattata ai tempi moderni. In realtà è la metafora dello scontro epocale tra due civiltà, di cui si profilava già netto, negli anni ’50, l’esito. Da una parte, il mondo contadino, ormai al tramonto, perduto nei suoi sogni arcaici di madonne e di miracoli, in una campagna già semi abbandonata, abitata da vecchi e da donne, con i giovani emigrati nelle fabbriche del nord o finiti ad ingrossare le fila dei borgatari delle periferie, dall’altra, la moderna società metropolitana, nata dalla improvvisa industrializzazione, popolata da masse di diseredati e di emarginati, in cui emergevano per amoralità e furbizia i piccoli parassiti opportunisti ed arraffoni, i nuovi mostri delle realtà cittadine del dopoguerra, poveracci assetati di soldi e disposti a tutto per arricchirsi, a calpestare gli umili e a sfruttare la credulità degli innocenti per raggiungere il successo, il potere o soltanto quelle briciole di benessere chimerico che il boom economico prometteva a tutti ma che riservava a pochi.
Cinematograficamente nasceva il personaggio o per meglio dire la macchietta di quell’italiano falso, ipocrita, cinico e bonariamente disonesto, descritto in celluloide come una simpatica canaglia, protagonista di gran parte delle commedie all’italiana degli anni ’60 e ’70 e così funesto per l’immaginario collettivo a causa di quell’improvvida e superficiale implicita autoassoluzione dei peggiori vizi della società italiana, che faceva tutt’uno con lo spirito tollerante ed il perdono sempre accordato al peccatore pentito dal cattolicesimo nostrano.
Ma Il Bidone non è soltanto questo. La sua grandezza sta nel rendere quei personaggi, altrimenti maschere popolari, simili, per la furbizia atavica delle genti italiche, a Pulcinella e ad Arlecchino, nella loro umanità sofferente. Al di là delle scorribande divertite e divertenti nelle campagne elette a terreno di caccia dei truffatori, al ritmo sbeffeggiante della marcetta indimenticabile di Rota, e dei travestimenti improbabili da monsignori e vescovi, con l’incursione del teatro nel cinema, in cui i personaggi vestono i panni degli attori per necessità criminale, c’è il vissuto di Augusto, l’attempato e carismatico delinquente, con una sua dignità d’altri tempi, che cerca disperatamente di riscattare il destino di sua figlia fino all’estremo sacrificio, interpretato da uno straordinario Broderick Crawford,doppiato magnificamente da Arnoldo Foà. C’è la storia di una giovane famiglia, Carlo, John Basehart già interprete del matto nel La Strada, e Iris, Giulietta Masina, e la tenerezza di una speranza, destinata alla disillusione, di sottrarsi alla povertà.
La sequenza in cui Augusto al cinema viene riconosciuto da una delle sue vittime e portato in commissariato davanti alla figlia, richiama alla mente, per la potenza drammatica della scena e la faccia sgomenta del protagonista umiliato di fronte alla persona più cara, l’arresto del padre sotto gli occhi smarriti del figlioletto in Ladri di biciclette, anche se in ben altro contesto.
L’epilogo tragico di una commedia amara è segnato dall’impossibilità di sfuggire al proprio destino. Nessuna assoluzione in extremis, nessuna redenzione per chi ha sbagliato. No, il finale non è all’italiana, non c’è il lieto fine ed il volemose bene ed il film non avrà successo forse anche per questo. La condanna si abbatte implacabile con la forza della nemesi. La mano di Augusto, ferito a morte, che si allunga dalla scarpata polverosa, verso una famiglia di contadini che passa sulla strada bianca, sterrata, ancora vergine, nel gesto disperato, a cercare aiuto proprio in quella umanità semplice e genuina, sopravvissuta allo scempio della modernità, non sarà scorta da nessuno.
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