rmarci 05
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martedì 14 maggio 2019
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ritratto del "nemico" intimo e profondamente umano
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Realizzando un dittico comprendente anche Flags of our fathers, Clint Eastwood compie un autentico atto di coraggio e mostra, con uno sguardo documentaristco quanto intimo, la Seconda Guerra Mondiale attraverso gli occhi dei presunti "nemici", che si riveleranno essere, durante il corso del film, dei comuni esseri umani che si differenziano dai Marines americani solamente per una banale provenienza geografica. Partendo da questo espediente narrativo, il regista Premio Oscar riprende, con una fotografia esanime quanto i cadaveri dei soldati, l'intera isola di Iwo Jima, analizzando nel profondo le personalità dei soldati giapponesi che, se inizialmente erano uomini consapevoli della morte incombente e disposti a compiere qualsiasi atto pur di servire la propria Patria, successivamente diventano sempre più tromentati e incerti se seguire i valori fondamentali dell'esercito o salvare le proprie vite, inutilmente sacrificate sull'altare della ricchezza e del potere.
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Realizzando un dittico comprendente anche Flags of our fathers, Clint Eastwood compie un autentico atto di coraggio e mostra, con uno sguardo documentaristco quanto intimo, la Seconda Guerra Mondiale attraverso gli occhi dei presunti "nemici", che si riveleranno essere, durante il corso del film, dei comuni esseri umani che si differenziano dai Marines americani solamente per una banale provenienza geografica. Partendo da questo espediente narrativo, il regista Premio Oscar riprende, con una fotografia esanime quanto i cadaveri dei soldati, l'intera isola di Iwo Jima, analizzando nel profondo le personalità dei soldati giapponesi che, se inizialmente erano uomini consapevoli della morte incombente e disposti a compiere qualsiasi atto pur di servire la propria Patria, successivamente diventano sempre più tromentati e incerti se seguire i valori fondamentali dell'esercito o salvare le proprie vite, inutilmente sacrificate sull'altare della ricchezza e del potere. Tra scene struggenti e ottime interpretazioni, Eastwood fornisce un ritratto incredibilmente realistico nonché profondamente umano della guerra in tutte le sue inutili carneficine, senza sbavature e privo del tipico buonismo furbo e insopportabile. Ma soprattutto ci insegna qualcosa di estremamente importante: il Male non è mai schierato tutto da una parte.
Imperdibile, uno dei migliori film di Clint Eastwood, 4 stelle su 5.
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marcloud
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mercoledì 9 gennaio 2019
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un film per i vinti
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Raramente si vede un film di guerra dedicato ai vinti. Soltanto Clint Eastwood poteva renderlo così equilibrato, senza cadere in nessuna retorica buonista e concedendo dove era più giusto farlo una buona dose di eroicità ma senza scadere nel banale.
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greatsteven
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domenica 25 giugno 2017
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la più bruciante sconfitta per il valore nipponico
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LETTERE DA IWO JIMA (USA/JAP, 2006) diretto da CLINT EASTWOOD. Interpretato da KEN WATANABE, KAZUNARI MINONIYA, TSUYOSHI IHARA, RYO KASE, YUKI MATSUKAZI, LUKE EBERL
Complementare al precedente Flags of Our Fathers, è la descrizione della battaglia di Iwo Jima dal punto di vista dell’esercito giapponese. Girato in lingua nipponica, ma di produzione statunitense, in Italia è disponibile nella versione doppiata con le voci italiane in DVD. Scelta saggia quella di mantenere intatte le battute inglesi, quando a parlare sono i soldati americani, come si era già fatto in senso inverso col film di cui sopra. Tratto dal libro memorialistico Picture Letters from Commander in Chief del generale Tadamichi Kuribayashi, interpretato nel film da uno strepitoso, infallibile, efficacissimo Ken Watanabe, che personalizza il massimo esponente del regio esercito con una mimica marmorea, un piglio autoritario e un’intensità drammatica da permeare tutto il contesto filmico intorno a sé.
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LETTERE DA IWO JIMA (USA/JAP, 2006) diretto da CLINT EASTWOOD. Interpretato da KEN WATANABE, KAZUNARI MINONIYA, TSUYOSHI IHARA, RYO KASE, YUKI MATSUKAZI, LUKE EBERL
Complementare al precedente Flags of Our Fathers, è la descrizione della battaglia di Iwo Jima dal punto di vista dell’esercito giapponese. Girato in lingua nipponica, ma di produzione statunitense, in Italia è disponibile nella versione doppiata con le voci italiane in DVD. Scelta saggia quella di mantenere intatte le battute inglesi, quando a parlare sono i soldati americani, come si era già fatto in senso inverso col film di cui sopra. Tratto dal libro memorialistico Picture Letters from Commander in Chief del generale Tadamichi Kuribayashi, interpretato nel film da uno strepitoso, infallibile, efficacissimo Ken Watanabe, che personalizza il massimo esponente del regio esercito con una mimica marmorea, un piglio autoritario e un’intensità drammatica da permeare tutto il contesto filmico intorno a sé. Kuribayashi raggiunge nel dicembre 1944 la spiaggia di Iwo Jima, e dà ordine di smettere l’edificazione delle trincee perché l’esercito statunitense nemico attaccherà dal cielo e dal mare e pertanto è opportuno spostare le linee difensive sulla cima del monte Suribachi. Insieme a lui v’è il tenente colonnello, nonché barone, Nishi, giunto a cavallo in quanto campione delle Olimpiadi di Los Angeles 1932. Nelle prime linee combattono Saigo, ex fornaio sposato, con una bambina in arrivo e compreso delle felicitazioni dei parenti per la sua chiamata alle armi; Nozaki, suo grande amico e compagno di branda; e Shimizu, sospettato di essere una spia, ma invece degradato e punito per aver rifiutato di uccidere un cane disturbatore durante la perlustrazione di un quartiere alla presenza d’un ufficiale. A comandare le truppe vi sono i tenenti Ito e Fujita e il capitano Tanida. Film corale, di ampio respiro bellico, che sfoggia come accade sempre nel genere un antibellicismo proclamato e dichiarato, che qui ha però il pregio di evitare la retorica e l’autocitazione per dipingere un affresco non solo verosimile, ma più vero dell’autentico, sulla barbarie (dis)umana che ha invaso gli animi dei soldati che combatterono una delle peggiori battaglie della Storia in toto, non solo della Seconda Guerra Mondiale, in termini di perdite umane, sangue versato, danni territoriali, paure instillate nei sentimenti fin troppo scossi. Strapieno di pezzi di bravura imperdibili che testimoniano la perizia registica di Eastwood, ormai ben avviato dietro la macchina da presa e, produttore insieme a Steven Spielberg che l’ha finanziato con la sua inseparabile DreamWorks, capacissimo di restituire in immagini audiovisive ciò che accadde nel passato. Un passato più funesto e nefasto che mai, che l’attore-regista descrive con la penna del narratore navigato, compensando la violenza efferata, ma mai fine a sé stessa, con gli effetti speciali che ne permettono un’efficiente raffigurazione e specialmente con le motivazioni interiori che esaminano le psicologie dei personaggi – piccoli uomini prestati al servizio di leva per onorare l’impero nipponico – e ne spiegano le azioni. Costretti a servire la patria per la soddisfazione necessaria e la celebrazione autoreferenziale di gloria della monarchia, i soldati semplici giapponesi che appaiono nella vicenda soffrono la lontananza dalla famiglia, sono obbligati a turni di staffetta massacranti, devono svuotare i propri scarti alimentari, dormono all’addiaccio, guerreggiano con qualsiasi condizione climatica e sperano che il conflitto armato finisca presto, ma ciò che li rende davvero speciali è il rispetto che portano a sé stessi e ai compagni, identificando in un’amicizia viscerale il crisma che li unisce malgrado l’avanzare della brutalità più sanguinaria che si possa immaginare. Una guerra che falcidia e decima gli uomini come granelli di sabbia sollevati da una detonazione od esplosione, ma che non è abbastanza forte da lenire lo spirito di corpo e la sensazione di sacrificio che, pronti come una mina in procinto d’esser scagliata, scaturiscono al minimo tentennamento del coraggio per venire in soccorso a chi è oppresso, o si fa opprimere, dal dolore nella disperazione immediata e deplorevole di ottenere un successo bellico più presto che si può. Fra i frammenti di miglior impatto dapprima nominati, vanno sicuramente annoverati: la cena a base di sakè e superalcolici fra Kuribayashi e il barone appassionato d’equitazione; i dialoghi fra Saigo e Nozaki nel buio della caverna in cui vedono approdare dal nulla il silenzioso Shimizu; l’harakiri del capitano Tanida quando vede che ormai il monte Suribachi non è più difendibile; il trascinamento del corpo quasi esanime del generale da parte di Saigo, dopo la mancata decapitazione da parte del sottufficiale con la spada per via di una disturbante fucilata; la valutazione dei piani d’attacco mediante le mappe geografiche e i contatti radio sempre più complicati e rarefatti; l’avanzamento del tenente Ito presso le selve di cadaveri cui si confonde cercando di tendere un’imboscata agli statunitensi; la poetica ed intensa morte di Shimizu per mano dei marines; la spedizione delle lettere a partire dal dispaccio del fronte e il loro finale recupero durante gli scavi archeologici del 2005. Un film epico che si stende come un panno morbido e serafico sul mondo della guerra, denunciando senza pietà il regime militare, la disciplina soldatesca e la testardaggine di alcuni ufficiali, ma elogiando al contempo la pazienza e la perseveranza di altri che preferiscono attendere il momento ideale per sferrare l’offensiva determinante o, a mali estremi, rimediare con una sconfitta dignitosa che combina la ritirata con la conservazione dell’onore incrollabile, valore della cultura giapponese vecchio come l’arcipelago stesso e radice intoccabile del modo di pensare nell’Estremo Oriente. Eastwood sa anche operare una funzionale commistione di generi, attingendo dal bellico, dal drammatico e dal bio-pic tramite un’estrapolazione che trae da ciascuno gli elementi più vistosi per costruire un’opera che ben si incunea nella tradizione USA del cinema storico. Raccontando una pagina di Storia neanche troppo lontana, diciamo di passato prossimo, che non toglie dignità né ai connazionali né agli stranieri, ma privilegia piuttosto un aspetto obiettivo e neutrale di narrare un episodio focalizzandosi su una lente d’ingrandimento che condanni l’utilitarismo della tecnologia militare d’avanguardia e premi il coraggio, la forza di volontà, l’umiltà e il carisma di chi combatte nelle prime file. Di chi non si fa intortare da un ideale inesistente e fasullo. Di chi segue le proprie opinioni comprendendole e facendole capire a chi gli sta intorno. E infine anche di chi accetta di esser stato battuto, ma non rinuncia comunque a rimontare in sella e ritentare l’impresa con tutto il fiato che ancora riesce a spendere.
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maggie69
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sabato 20 giugno 2015
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come un americano vede i japanise
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Il film non è assolutamente credibile nella gran parte delle due ore. Non capisco dove sia il "capolavoro".
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elgatoloco
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venerdì 8 maggio 2015
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eastwood, only eastwood
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Letters from Iwo Jima è un grande film e dirlo di un film di Eastwood sembra quasi banalmente retorico/retorica. Il fatto è che l'impostazione registica di Clint è eccelsa, che riesce a sfidare i pregiudizi hollywoodiani senza problemi, facendo decadere ogni falsa retorica, appunto. Niente"musi gialli", come nella retorica bellicistica yankee, ma persone, certo strutturate da"Banzai...!", con tutta l'infame propaganda dell'Impero giapponese, dunque con la retorica patriottarda e pseudo-religiosa(di e da"Ersatz", ossia da religione surrogatoria)dell'Imperatore etc., con un dirigismo militarista e gerarchico"da paura", ma con questo film sommesso ma non dimesso, Eastwood, con un bianco e nero che fa da"basso continuo"e poche illuminazioni di colore(ril rosso è ovviamente prevalente), realizza un pendant di grande respiro a"Flags for your Fathers": i problemi dei soldati-dei mandati a morire dalle(e delle) due parti sono uguali, fidanzate in attesa, genitori che aspettano trepidanti.
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Letters from Iwo Jima è un grande film e dirlo di un film di Eastwood sembra quasi banalmente retorico/retorica. Il fatto è che l'impostazione registica di Clint è eccelsa, che riesce a sfidare i pregiudizi hollywoodiani senza problemi, facendo decadere ogni falsa retorica, appunto. Niente"musi gialli", come nella retorica bellicistica yankee, ma persone, certo strutturate da"Banzai...!", con tutta l'infame propaganda dell'Impero giapponese, dunque con la retorica patriottarda e pseudo-religiosa(di e da"Ersatz", ossia da religione surrogatoria)dell'Imperatore etc., con un dirigismo militarista e gerarchico"da paura", ma con questo film sommesso ma non dimesso, Eastwood, con un bianco e nero che fa da"basso continuo"e poche illuminazioni di colore(ril rosso è ovviamente prevalente), realizza un pendant di grande respiro a"Flags for your Fathers": i problemi dei soldati-dei mandati a morire dalle(e delle) due parti sono uguali, fidanzate in attesa, genitori che aspettano trepidanti. QUanto a"Flags", ancora una notazione: per Piera Detassis è un film hollywoodiano; penso invece sia un film che si serve di stilemi hollywoodiani, ma in funzione anti-hollywoodiana, quindi implosivamente. El Gato
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tomdoniphon
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sabato 2 maggio 2015
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i due fronti della battaglia di iwo jima
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Il secondo dei due film (l’altro è “Flags of our fathers”) che Eastwood ha girato, quasi contemporaneamente, sulla battaglia di Iwo Jima.
Quello che ha fatto Eastwood è qualcosa di unico e insuperato: girare una delle più sanguinose battaglie della Seconda Guerra Mondiale, assumendo il punto di vista di entrambi gli schieramenti (senza paura di mostrare, in questo secondo capitolo, le crudeltà commesse dagli americani).
Coerente con il cinema di Fuller (“Il grande uno rosso”), secondo cui in guerra “non esistono eroi ma solo sopravvissuti”; tema, questo, che in “Flags of our fathers” era stato affrontato prendendo spunto dalla vicenda dei tre superstiti, immortalati nella celebre foto che ritraeva i soldati issare la bandiera sul monte di Iwo Jima: prima trasformati in eroi grotteschi, poi immediatamente dimenticati.
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Il secondo dei due film (l’altro è “Flags of our fathers”) che Eastwood ha girato, quasi contemporaneamente, sulla battaglia di Iwo Jima.
Quello che ha fatto Eastwood è qualcosa di unico e insuperato: girare una delle più sanguinose battaglie della Seconda Guerra Mondiale, assumendo il punto di vista di entrambi gli schieramenti (senza paura di mostrare, in questo secondo capitolo, le crudeltà commesse dagli americani).
Coerente con il cinema di Fuller (“Il grande uno rosso”), secondo cui in guerra “non esistono eroi ma solo sopravvissuti”; tema, questo, che in “Flags of our fathers” era stato affrontato prendendo spunto dalla vicenda dei tre superstiti, immortalati nella celebre foto che ritraeva i soldati issare la bandiera sul monte di Iwo Jima: prima trasformati in eroi grotteschi, poi immediatamente dimenticati. In “Lettere da Iwo Jima”, invece, Eastwood si cala magistralmente nei panni del nemico di allora, analizzando i tormenti dei generali e di alcuni militari, e mettendo in discussione il mito (non certo solo nipponico) del patriottismo.
Un’ulteriore dimostrazione di come Eastwood – giunto con “Gli spietati” (1992) alla maturità artistica – sia uno dei pochi registi in grado di farci riflettere e trasmettere delle emozioni: un cinema mai banale né scontato; e senza certezze (il che è certamente è un bene).
In questo, paradossalmente, è aiutato dal suo stile classico (rimanda in parte a Ford), che ha ancora molto da insegnare ad una parte consistente del cinema “d’autore” d’oggi.
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brando fioravanti
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lunedì 4 novembre 2013
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grandioso
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La battaglia di Iwo Jima doveva essere un facile assedio da parte dell'esercito americano, mentre grazie alle strategie e il coraggio dell'esercito giapponese si trasforma in un eroica resistenza. Film da diverse interpretazioni che mette in luce la goliardia e il rigido senso del dovere nipponico, ma anche lo stato interiore dei soldati in questa impresa straziante e disumana. Sciegliere tra vivere o morire onorevolmente? Meglio arrendersi che continuare una battaglia impari?Niente di nuovo,ma sicuramente la descrizione di una battaglia claustrofobica e sofferta aiuta a riflettere. Fotografia sbiadita per quasi tutto il film, riprende colore solo nelle scene fuoricampo rendendo più inquietante la resistenza sull'isola.
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nick simon
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giovedì 29 agosto 2013
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suggestiva celebrazione della dignità umana
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Solo un regista, e prima ancora un uomo, dotato di umanità ed equilibrio come Clint Eastwood poteva finalmente far riflettere sulla necessità di conoscere e comprendere il proprio nemico, sul dovere di rispettare ogni cultura e sull’impossibilità di definire il bene e il male in senso assoluto. Insieme a “Flags of our Fathers” il film analizza le vicende che fecero da contorno alla battaglia di Iwo Jima, in questo caso dal punto di vista giapponese. Come di consueto, Eastwood unisce il suo stile registico pulito e asciutto alla profondità dell’indagine psicologica. Senza farsi giudice delle vicende narrate, e rifiutando ogni sensazionalismo, egli rende giustizia ad entrambi gli schieramenti.
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Solo un regista, e prima ancora un uomo, dotato di umanità ed equilibrio come Clint Eastwood poteva finalmente far riflettere sulla necessità di conoscere e comprendere il proprio nemico, sul dovere di rispettare ogni cultura e sull’impossibilità di definire il bene e il male in senso assoluto. Insieme a “Flags of our Fathers” il film analizza le vicende che fecero da contorno alla battaglia di Iwo Jima, in questo caso dal punto di vista giapponese. Come di consueto, Eastwood unisce il suo stile registico pulito e asciutto alla profondità dell’indagine psicologica. Senza farsi giudice delle vicende narrate, e rifiutando ogni sensazionalismo, egli rende giustizia ad entrambi gli schieramenti. La condanna verso la guerra non si esprime attraverso il paternalismo o la retorica pacifista, bensì grazie alla contrapposizione tra l’ottuso fanatismo di alcuni militari e la speranza dei soldati, in un grandioso inno ai valori della vita. Le scene di combattimento sono girate perfettamente, ma non è questo il fulcro della storia; ciò che conta è l’animo dei personaggi. Al di là di ogni differenza politica o culturale, i protagonisti sono uomini uguali ma nascosti dietro uniformi di colore diverso: le lettere scritte dai soldati giapponesi e sepolte nella grotta sono identiche a quelle scritte dai soldati americani. È anche il generale Kuribayashi (l’ottimo Ken Watanabe), figura contradditoria ma giudiziosa, a fare da portavoce di questo concetto semplice ma fondamentale. La grandezza del cinema di Clint Eastwood sta nella sua capacità di emozionare, far meditare e anche soffrire lo spettatore, bilanciando la potenza del messaggio con la delicatezza narrativa e la sottigliezza psicologica. È un cinema che predilige il chiaroscuro, i contrasti, la penombra. La fotografia più che mai desaturata di Tom Stern è, in questo caso, metafora della condizione dei soldati: svuotati e turbati nell’intimo, così come le immagini sono private del colore. Struggente la colonna sonora.
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shiningeyes
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lunedì 15 aprile 2013
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si è sempre tutti uguali!
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Dopo aver studiato la battaglia di Iwo Jima dal punto di vista americano, Clint Eastwood decide di chiudere il cerchio facendoci vedere il punto di vista giapponese, nel quale vediamo che, risente troppo dell'onore e l'orgoglio dei suoi capi militari e si divide tra esaltati che si suicidano per evitare il disonore della sconfitta ed uomini più riflessivi e umani.
Nel film di Clint, possiamo vedere che i soldati giapponesi, per certi versi, sono uguali a quelli americani, loro stessi se ne rendono conto quando un soldato dice di aver letto la lettera della madre di un soldato americano, affermando che vi erano scritte le stesse parole che gli aveva scritto la sua di madre, è chiaro quindi il tema dell'uguaglianza tra persone che devono essere costrette ad uccidersi; in guerra si è tutti uguali, anche con differenze culturali nel mezzo.
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Dopo aver studiato la battaglia di Iwo Jima dal punto di vista americano, Clint Eastwood decide di chiudere il cerchio facendoci vedere il punto di vista giapponese, nel quale vediamo che, risente troppo dell'onore e l'orgoglio dei suoi capi militari e si divide tra esaltati che si suicidano per evitare il disonore della sconfitta ed uomini più riflessivi e umani.
Nel film di Clint, possiamo vedere che i soldati giapponesi, per certi versi, sono uguali a quelli americani, loro stessi se ne rendono conto quando un soldato dice di aver letto la lettera della madre di un soldato americano, affermando che vi erano scritte le stesse parole che gli aveva scritto la sua di madre, è chiaro quindi il tema dell'uguaglianza tra persone che devono essere costrette ad uccidersi; in guerra si è tutti uguali, anche con differenze culturali nel mezzo. Pian piano i soldati giapponesi si accorgeranno della assurdità di tale guerra e metteranno da parte l'amor patrio per pensare alla loro sopravvivenza; la figura del soldato Saigo è per l'appunto, l'emblema di questo pensiero, non facendo altro che pensare di tornare a casa per riabbracciare la propria famiglia.
La figura che rappresenta l'onore ed il coraggio della milizia giapponese è il generale Kuribayashi, perlopiù amico degli americani durante i tempi di pace che, si trova costretto a combatterli per il suo paese, distinguendosi per il coraggio e spessore umano (bravissimo Ken Watanabe, che lo interpreta). E' vero che, un'operazione filmica del genere si era già vista con il capolavoro “La sottile linea rossa” di Malick, ma è anche vero che Eastwood riesce meglio nell'impresa di darci uno sguardo reale e drammatico di quei terribili giorni di asserragliamento dell'esercito nipponico, dove i sentimenti loro vengono, appunto, espressi tramite le lettere che inviano ai loro cari; il tutto governato da una sceneggiatura bella e brutale ed una luce cupissima, decisamente adatta a narrare i tristi eventi di quella battaglia.
Il finale poi, è di una poesia unica, degno per un film che non conosce cali qualitativi dall'inizio alla fine.
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omero sala
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mercoledì 11 gennaio 2012
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gli occhi del nemico
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Film asciutto, efficace, pulito, essenziale: ancora una volta Eastwood si dimostra capace di raccontare la guerra senza retoriche, di celebrare la pace senza proclami antimilitaristi e senza appelli alla fratellanza, di trattare emozioni evitando banalità, di mandare messaggi forti con voce sommessa.
Particolare e coraggiosa è prima di tutto l’idea di porsi dal punto di vista del “nemico” e di rimarcare questa prospettiva facendo recitare gli attori in giapponese, coi sottotitoli.
Straordinario poi è l’equilibrio che Eastwood mette nel descrivere con uguale compassione il furore del fanatico e la paura del disertore, lo spirito di “immolazione” e l’istinto di sopravvivenza; e straordinario è il senso della misura che gli consente, senza incoerenza, di assegnare uguale dignità al senso dell’onore e all’orrore, di rappresentare con pari efficacia la voglia di morire e quella di vivere; di alternare scene di ferocia cruda con scene di struggente tenerezza; di trovare efficacia nel suscitare pietà senza cadere nel pietismo.
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Film asciutto, efficace, pulito, essenziale: ancora una volta Eastwood si dimostra capace di raccontare la guerra senza retoriche, di celebrare la pace senza proclami antimilitaristi e senza appelli alla fratellanza, di trattare emozioni evitando banalità, di mandare messaggi forti con voce sommessa.
Particolare e coraggiosa è prima di tutto l’idea di porsi dal punto di vista del “nemico” e di rimarcare questa prospettiva facendo recitare gli attori in giapponese, coi sottotitoli.
Straordinario poi è l’equilibrio che Eastwood mette nel descrivere con uguale compassione il furore del fanatico e la paura del disertore, lo spirito di “immolazione” e l’istinto di sopravvivenza; e straordinario è il senso della misura che gli consente, senza incoerenza, di assegnare uguale dignità al senso dell’onore e all’orrore, di rappresentare con pari efficacia la voglia di morire e quella di vivere; di alternare scene di ferocia cruda con scene di struggente tenerezza; di trovare efficacia nel suscitare pietà senza cadere nel pietismo. Eastwood abbraccia con identico affetto e con sincerità le certezze del grande generale e le incertezze del piccolo fornaio, rispetta la scelta di morire del primo e la tenace voglia di tornare a casa del secondo.
Ci dice che la dignità, come del resto la stupidità, non ha bandiere; che è “onorevole” fare quello che detta la coscienza o il cuore, con tutte le sue contraddizioni; che negli occhi di un nemico è possibile specchiarsi; che le donne sanno veder più vicino ma anche più lontano …
La sceneggiatura è scarna, la regia è accurata ma non invadente, i colori denaturati creano atmosfere livide, l’ambientazione è angosciante, gli esterni (sull’arida isola) sono inquietanti, gli interni (nelle caverne e nei camminamenti) sono oppressivi e claustrofobici ed evocano nello stesso tempo la sepoltura e, nella loro provvisoria sicurezza, la protezione del ventre materno.
L’orgoglio nipponico in quegli antri è compresso, dolente, soffocato, tragico. Nulla è più desolante e disperato del “banzai” che vi echeggia, l’urlo di guerra e di morte che i soldati – morti che camminano – lanciano prima di morire, dopo aver ripiegato nello zaino la loro ultima lettera a casa, piena di nostalgia, di tenerezza e di rimpianti.
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