Sembra quasi un episodio di Dylan Dog, post Tiziano Sclavi, il nuovo film del regista del Senso Senso, Shyamalan, con una vicenda apparentemente orrorifica che tuttavia parla al presente con un arzigogolato riferimento alla cultura del tempo.
Un tempo che scorre come sabbia tra le dita (non a caso il film è ispirato a una graphic novel francese, Sandcastle- Castello di sabbia) ineluttabile quanto inesorabile del quale, oggigiorno, presi da ritmi frenetici sembriamo esserci dimenticati, salvo poi ritrovarci, con la bulimia da social network a immortalare ogni nostro momento credendolo eterno e immortale. Ma il tempo ci illude, ci fa lo sgambetto, e nel momento in cui quell’attimo, creduto appunto imperituro, sparisce, ci ritroviamo dentro una spirale di sofferenza e inconcludenza.
In Old, vecchio, Shyamalan sembra parlarci di questo ed usa il pretesto di una spiaggia, riparata dentro un misterioso resort esclusivo, in cui il tempo appunto scorre assai più velocemente rispetto al mondo esterno (una mezz’ora in quel luogo equivale a una giornata intera), per interrogarci/si sulla frontiera e i limiti di una consapevolezza che prima di tutto viene da noi stessi.
Non è un caso che i protagonisti che si ritrovano a convivere in quel “paradiso” con tanto di morti sospette minuto dopo minuto, siano in qualche modo legati da drammi o patologie cliniche, avvinti a un sostrato di sofferenza che li accumuna fatta eccezione, almeno in apparenza, della coppia “principe”, Guy e Prisca che felici si concedono tre giorni di vacanza, nascondendo tuttavia ai loro figli quell’astio incondizionato che li trafigge giorno dopo giorno di cui nel corso del film scopriremo la ragione. Una verità tutt’altro che piacevole che cambierà le loro vite per sempre.
Ragionando sui limiti deltempo e della salute mentale come già in Split, senza tuttavia calcare la mano sullo splatter di Glass ma lasciando palpare, forse incubo assai peggiore, l’inquietudine allo spettatore, Old costituisce un manifesto di cinema esistenziale, citazionista (il dottore pazzo che chiede il titolo di un film in cui recita Marlon Brando si comporta proprio come l’attore nel ruolo di Kurtz Apocalipse Now, una misteriosa figura che riprende dall’alto quella spiaggia scena dopo scena, una comparsa dello stesso regista sulla falsa riga di Hitchcock nei suoi film a sua volta rimanda a Dieci piccoli indiani della Christie) che costruisce, complice una fotografia raffinata e un montaggio distorto assai troppo ridondante, una tensione capace di metabolizzare, nel suo viaggio nel tempo, una summa concentrata delle angosce legata alla crescita, all’invecchiamento e alla metabolizzazione di un dramma. E non è un caso che oltre la patina esistenziale, il film si imperni sul complicato legame genitore-figlio. Figli che diventano grandi in un batter d’occhio (una scena appunto del pancione di una delle due bambine ora adulte, fa sorridere amaramente….stavamo solo giocando col mio amico dirà!), che in qualche modo, sono ancora incapaci di affrontare il destino umano fatto di misteriose asperità (le rocce che circondano la spiaggia, muro quasi impenetrabile) e terribili scoperte (i morti, la malattia, la follia).
Temi cari a Shyamalan, con un cast recitativo sottotono, ripreso stile Isola dei famosi, con una coreografia di una steadycam ad altezza d’uomo, squilibrata da momenti ellittici controcampo che rendono una vita intera sintetizzabile in un solo giorno.
Cosa fare dunque in un tempo così limitato appurato che non esiste, apparentemente, fuga?
Agatha Christie ci ha basato una letteratura di genere nei cosiddetti gialli da camera chiusa e Shyamalan ne ribalta la prospettiva con un nemico invisibile in uno spazio aperto. In cui l’adolescenza diventa età adulta e la vecchiaia è il solo unico male dal quale non ci si può illudere di poter guarire. Lo diceva Orson Wells in Quarto potere e ci piace pensare che, nel suo piccolo, Shyamalan ci abbia visto qualcosa.
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