Il nuovo film di Pupi Avati emoziona e tanto anche. In primo luogo, vedere un personaggio “storico” di film comici anni ’90, come Renato Pozzetto, in un ruolo intensamente drammatico è già motivo di interesse. Tuttavia, è la storia, ampia, intima e “verista” intinta dal sapore di dolce amarezza a imperniare il soggetto di Lei mi parla ancora.
Il film racconta una storia anacronistica di questi tempi che assomiglia per molti versi alla vicenda personale di Pupi Avati. Una storia d'amore durata sessantacinque anni, liberamente ispirata alla biografia di Giuseppe Sgarbi che restituisce il significato di una locuzione avverbiale, sempre, oggigiorno quasi tabu.
Sono tutti giovani che della parola “sempre“ non conoscono il significato, i protagonisti di Lei mi parla ancora, giovani vecchi, incapaci di vedere il presente, un pò come lo stesso regista che lo spiega associandolo al passato. Un archetipo ancestrale, vestito di una malinconia e permeato da una nobile saudade che non guarda solo alle nostalgiche emozioni ma, dotato di un’accezione positivista al futuro, rimanda all’immortalità, parlandoci in una narrazione aperta al mondo circostante. Come quello che circonda il protagonista Nino (il bravissimo Renato Pozzetto) e la costruzione tendente all’idillio di un amore totalizzante con Rina (Stefania Sandrelli) che nasce, cresce e supera ogni ostacolo.
Trait-uniontra presente e passato è un ghost-writer, Amicangelo, (il sempre teatrale Fabrizio Gifuni), uno scrittore “fantasma” (immagine putativamente non casuale), che si trova, su “commissione” della figlia di Nino (editrice) –pena una mancata pubblicazione del romanzo di una vita- a delineare la vicenda di una coppia. Una coppia che ha superato ogni difficoltà economica, capace di superare le pieghe del tempo, dagli anni amari dell’alluvione del Polesine all’incertezza di un futuro da costruire insieme. Nino e Rina (Stefania Sandrelli) sono due personaggi simbolo di un’umanità che non esiste più e che continua a parlare anche dopo la morte.
È quell’amarezza che fa parte della vita, del ricordo e di tanto cinema di Avati, mai dolciastro, ma vivo proprio perché portatore di una nostalgia potente, fugace, impercettibile sullo sfondo di un paesaggio che si fa dell’anima, fatto di canzoni, amicizia e oggetti dimenticati nei bar, in cui un tiro a pallone sembra assurgere a metafora di una vita che sale e che scende, nella ciclicità circadiana che ritorna parabola discendente, bambina.
Sì, bambina perché la storia di Sgarbi, lo stile di un regista come Avati che rende la vicenda personalissima, la trovata e la capacità di giocare su un interprete come Pozzetto, sono elementi preziosi di sogno, ai poli opposti dell’anima fredda e pronta a registrare (oggi si scrive così) su un elemento digitale.
Frammenti di passato, i magnifici anni ’50 del riscatto, le storie che si fanno presente negli sguardi quasi metafisici di Nino e Amicangelo; la scelta di miscelare sapientemente i due piani, facendo interloquire personaggi in fasi diverse della loro vita (Nina giovane ha il volto candido di Isabella Ragonese) e preservando tuttavia il sentimento dell’oggi, grazie al sommo potere del ricordo.
Ricordo che si fa letteratura e, con Avati, cinema.
E che cinema! Affaticato da uno sviluppo ondivago, dall’incedere ingenuo, Lei mi parla ancora sbaglia, stona ma alla fine ha in sé la forza di preservare quel piglio di compostezza, creatività e soprattutto genuinità che molte pellicole odierne sembrano avere dimenticato. Del resto: L’uomo mortale, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Una sentenza d’amore, sì, d’amore per il cinema in senso lato.
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