Migliori nemici

   
   
   

Una storia autentica piena di insegnamenti Valutazione 3 stelle su cinque

di Felicity


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lunedì 14 dicembre 2020

Se, come gli spiazzati protagonisti di questo film, anche voi non avete familiarità col termine charrette, dopo la visione del biopic con cui il produttore Bissell (Pleasantville, Hunger Games) esordisce alla regia sarete ferrati sul tema: si tratta di un evento sociale in più sessioni, con l’obiettivo di mediare diversi interessi della comunità.
Nel caso di quella tenuta a Durham, North Carolina, nel 1971, sul tavolo c’è l’integrazione di studenti bianchi e afroamericani nella stessa scuola superiore, e come portavoce delle parti in causa sono chiamati a esercitare le rispettive leadership carismatiche l’attivista per i diritti civili Ann Atwater (una vulcanica Taraji P. Henson) e il capo del Ku Klux Klan locale C.P. Ellis (Sam Rockwell in piacevole sottrazione, quasi una versione pacata del suo personaggio di razzista redento in Tre manifesti a Ebbing, Missouri).
Ostinati e abituati a declamare a gran voce le proprie - inconciliabili - idee sulla società americana, nel lungo percorso della charrette sono costretti a guardare da vicino (se non a comprendere) le rispettive ragioni, nel caso di Ellis con risultati rivoluzionari.
La storia è autentica, sorretta da prevedibili dosi di retorica e tappe drammaturgiche risapute; ma l’empatia reciproca tra i due rivali è trattata con pragmatica assenza di scene madri o epifanie lacrimevoli (per molti versi, è l’anti-Green Book) ed emerge la lucida consapevolezza delle contraddizioni irrisolte di un paese, racchiuse nella rivelazione che a una classe sociale tagliata fuori dal Sogno americano non resti, come forma di appartenenza, che un abominio come il KKK.
La pellicola, fra inni di supremazia e rivendicazioni di diritti basilari, che oggi ci sembrano scontati, scorre veloce sino a un epilogo nel quale Sam Rockwell, che conferma tutta la sua abilità, riesce a rubare letteralemente la scena alla sua rivale: Taraji P. Henson, già vista ne ‘Il diritto di contare’, ovvero in un ruolo analogo da ricordare per le rivendicazioni espresse a favore delle minoranze.
La capacità del regista, anche autore della sceneggiatura, risiede proprio nell’imparzialità che riesce a mettere al servizio di una storia particolare e unica nel suo genere.
Una storia che s’incastona nel filone dei film di denuncia che hanno fatto la fortuna di un regista come Spike Lee e che qui viene declinata lasciando in bilico lo spettatore sino alle ultime curve, incerto sull’esito finale del dibattimento.
Un film da recuperare.

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