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“Il mio eterno obiettivo è sempre stato fare un film che una donna cinese di campagna potrebbe capire senza sottotitoli”.
Aki Kaurismaki .
Ogni bravo regista ha un suo ritmo, una sua musica. Quella di Kaurismaki è una miscela di rock progressivo anni '70 e blues in versione finnica. E non parlo solo degli intermezzi musicali che costellano i suoi film, tra cui questo suo ultimo "l'altro volto della speranza"-, ma del "respiro" delle sue opere che intrecciano vicende moderne con sentimenti antichi, storie di sradicamento ed emarginazione con slanci di solidarietà e accoglienza, una divertita e ironica leggerezza con la descrizione del male che si annida negli anfratti urbani delle città d'Europa.
La Finlandia rappresentata da Kaurismaki è un paese algido, taciturno, di solitudini consolidate, inquinato da gruppi di skinheads, ma, allo stesso tempo, capace di generosità, moti di altruismo, relazioni solidali tra emarginati. Un paese dove l'accoglienza dei migranti che provengono da scenari di guerra coniuga efficienza e capacità organizzative con una burocrazia ottusa e respingente, un paese dove si beve per non stare da soli e si beve anche in solitudine.
Ad Helsinki approda casualmente Khaled, in fuga da Aleppo, dove la guerra gli ha distrutto la casa e l'intera famiglia, a eccezione di una sorella dispersa in qualche campo profughi. Chiede asilo, viene registrato e inviato in un centro di accoglienza funzionale e asettico dove conosce Mazdak, profugo dall'Iraq. Khaled , davanti a una funzionaria dell'immigrazione, ricostruisce la sua odissea, comune a quella di tanti altri profughi: la famiglia sterminata dai bombardamenti, la fuga verso la Turchia, la traversata (pagata 3.000 dollari) clandestina verso la Grecia, la risalita verso i Balcani, la detenzione in Ungheria, il suo girovagare per mezz' 'Europa alla ricerca di sua sorella, l'aggressione subita a Danzica da un gruppo di skinheads, la sua fuga su un mercantile diretto in Finlandia.
Nel suo girovagare s'imbatte in Wilkstrom, un ex commesso viaggiatore che ha comprato un ristorante dopo una consistente vincita a poker. Nel ristorante, Khaled troverà un lavoro e un riparo alle intemperie della vita, oltre a una identità fittizia e alla sorella finalmente individuata..
Ci sono sequenze in "L'altro volto della speranza" che mi sono parse deliziose: il ristorante di Wilkstrom che si ricicla in sushi bar, con gli impiegati vestiti alla giapponese (kimono, bandana e bastone posto attraverso la cintura a imitare una katana), un gruppo di homeless che strappa Khaled dalle grinfie di un gruppetto di naziskin (riprendendo una sequenza quasi identica del film "l'uomo senza passato"), gli stacchi musicali con brani vintage di rock e blues finlandese.
Il film è pervaso da una sguardo ironico e partecipe, come in parecchie opere del maestro: da "Miracolo a Le Havre" al già citato "L'uomo senza passato". Un'ironia che si coniuga con una leggerezza stilistica sorprendente. I dialoghi sono scarni, ma pregnanti, all'insegna del "show, don't tell" e il film è pieno di dettagli che rimandano al passato (dalle autovetture anni '60 all'arredamento del ristorante), quasi un marchio di fabbrica del regista.
Come a dire che la modernità e le nuove condizioni di vita non scalfiscono gli elementi essenziali della condizione umana e che la speranza passa necessariamente attraverso forme di solidarietà e supporto tra culture diverse che smontano i muri (fisici e psicologici) edificati un po' ovunque nella nostra "civilizzata" Europa.
Un buon film, che s'inserisce nella ricerca stilistica e di contenuto dell'autore.
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