Amy - The Girl Behind the Name

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Un film di Asif Kapadia. Con Amy Winehouse, Yasiin Bey, Mark Ronson, Tony Bennett, Pete Doherty.
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Titolo originale Amy. Documentario, Ratings: Kids+13, durata 90 min. - Gran Bretagna 2015. - Good Films uscita martedì 15 settembre 2015. MYMONETRO Amy - The Girl Behind the Name * * * 1/2 - valutazione media: 3,59 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Tenera e fragile Winehouse prodigio della musica

di Gino Castaldo La Repubblica

Non bisogna vedere Amy, il documentario di Asif Kapadia, perché fa male vedere il fiore della bellezza sgretolarsi, autodistruggersi con tale implacabile determinazione. Non bisogna vederlo perché fa piangere, perché è insostenibile. Perché racconta una vicenda inaccettabile. Non bisogna vederlo perché ci restituisce la vita, l'inferno, il prodigio e i demoni di AmyWinehouse con inaudito e impudente senso della verità. Statene alla larga se volete proservare la vostra tranquillità, trovate una buona scusa per evitare la tentazione di andarlo a vedere quando (distribuito da Nexo e Good fflm) sarà proiettato in molte sale italiane per soli tre giorni, il 15, 16 e il l7 di settembre. Questo film va evitato come la peste perché ti ricorda come la musica dovrebbe essere e non è più, perché ti ricorda che può esistere un'artista interessata solo all'arte e aver paura del successo, sdegnarlo, addirittura disprezzarlo. Sono due ore e passa d'incrediblle ricchezza, con una quantità insospettabile di filmati privati, sfacciati, sinceri, di amici e collaboratori che descrivono la fragile, tenera, devastata personalità di Amy. Ma soprattutto c'è lei, in tutti i modi, in tutte le situazioni possibili, pubbliche e private. Ci sono le sue emozioni infantili, gli scherzi, le smorfie, i crolli, la droga, l'alcol il suo amore forsennato e distruttivo per Blake Fielder-Civil, l'unico uomo che ha sposato e col quale ha vissuto l'abisso della perdizione. E come se non bastasse c'è la musica, ci sono le sue canzoni e questo film aiuta a capire quanto fossero rigorosamente e tragicamente autobiografiche, verso dopo verso, e allora ovviamente diventano ancora più forti, più intense. Come poter reggere l'emozione straziante di un pezzo meraviglioso come Love is a losing game dopo averlo calato in mezzo ai suoi fantasmi di vita tra dissoluti amori, dipendenze varie, resurrezioni. Come reggere l'ironia di Rehab dopo averla vista sfatta e straziata da abusi di ogni tipo? ll film commette un crimine intollerabile: mostra senza veli ilrapporto di Amy Winehouse con la musica, viscerale, autentico, insopprimibile come l'aria che respirava, ma allo stesso tempo fonte di tormento, estasi e frustrazione. Mostra con spietata durezza l'effetto devastante che l'esposizione pubblica, i media, i paparazzi avevano sulla sua innocenza, sul suo smarrimento di fronte a un mondo in cui si sentiva estranea, avulsa, come un'aliena caduta per caso sul pianeta del successo. Lei del resto era un'aliena, un'anima antica sbalzata nella modernità, integra come una sublime opera d'arte, troppo sincera, troppo vera e fragile per reggerne il peso della vita. Imperdibile la scena dei Grammy, quando guarda in collegamento le nomination e poi stralunata sente che a vincere è stata proprio lei, incredula, sgomenta, travolta da chissà quali indicibili emozioni, così come quando legge i suoi versi, scritti su un notebook, con una cadenza che li trasforma in canzoni, o come quando in scena sempre sul punto di commettere qualcosa di sorprendente, un dispetto, una rinuncia, un'infamia, oppure un tocco d'inarrivabile bellezza vocale. A differenza della maggior parte dal documentari che circolano non ci sono esperti a commentare, ad analizzare, a interpretare lo stile. Ci sono le amiche, che per la prima volta, quasi fosse una sorta di terapia riabilitativa, parlano di lei, ci sono i suoi amori, c'è perfino il dissennato Blake Fielder-Civil, ci sono musitisti e manager, bodyguard e discografici che in un modo o nell'altro hanno avuto a che fare con lei, tutti in diversi modi protettivi, ma puntualmente incapaci di salvarla, a cominciare dal padre, che non esce nel migliore dei modi da questo racconto. E infatti all'uscita del film ha trovato la maniera di sottolineare la sua innocenza, nella quale aleggia. E non potrebbe essere altrimenti, un diffuso senso di colpa, anche quello contagioso. In fin dei conti ci si sente tutti in colpa perché un tale fiore di bellezza, un prodigio così irripetibile, sia stato lasciato a se stesso, sfiorire, peggio distruggersi senza ritegno. Anche per questo non bisogna vedere questo film. Nessuno di noi avrebbe potuto fare alcunché, è ovvio, ma questo non ci impedisce di soffrire, di trovare questa storia sommamente ingiusta, di sentirci responsabili, come lo siamo di fronte ai disastri ambientali, alle guerre, ai soprusi. Asif Kapadia ha avuto il torto di raccontarla troppo bene questa storia, di scavare troppo a fondo, di darci l'impressione, alla fine del film, di conoscerla bene, di godere quasi di una certa intimità col personaggio, e quosto allora è davvero insopportabile. Le emozioni che vi aspettano non sono tanto abituali di questi tempi. Non c'è ipocrisia, non c'è finzione, non ci sono vanità di facciata, non c'è nulla di consolatorio e rassicurante. Statevene a casa quando vedrete le locandine della proiezione del film, oppure andateci ma poi non dite che non vi avevamo avvertito. Potreste trovarlo prezioso, imperdibile, bello almeno quanto lo erano le canzoni di Amy Winehouse. E potrebbe essere troppo.
Da La Repubblica, 27 agosto 2015


di Gino Castaldo, 27 agosto 2015

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