Domingo Hemingway (Jude Law) è un famigerato ladro londinese. Uscito di prigione dopo 12 anni (del suo passato criminale nessun cenno), Dom ha un solo pensiero in testa: conquistarsi ciò che gli spetta per aver taciuto riguardo agli affari malavitosi di cui era a conoscenza. Con l’aiuto del compagno di affari e rapine Dickie (Richard E. Grant), giungerà presto alla villa del capo Monsieur Fontaine, ricco delinquente russo, per la promessa ricompensa. Tra folli peripezie e colpi di scena, Dom riuscirà a ritrovare i valori da cui gli anni di sofferenza e solitudine in cella l’avevano allontanato, senza tuttavia abbandonare i vizi e i comportamenti squilibrati che fanno parte della sua stessa natura.
Il personaggio principale è protagonista assoluto non solo della trama, ma di ogni dialogo e inquadratura. Jude Law entra magistralmente nella parte dando a Dom caratteristiche estreme: ogni espressione, ogni parola è caricata di una vena che sta a metà tra il delirio di onnipotenza e la malinconica disperazione. Dom è un personaggio contradditorio. Presuntuoso, pressapochista, impulsivo nei gesti, intreccia al tempo stesso dialoghi fortemente sarcastici, raffinatamente teatrali, a tratti onirici, lasciando gli altri personaggi (e noi spettatori) sorpresi e interdetti. Dom conferisce al suo linguaggio, superficialmente rozzo e volgare, spontaneità e autenticità che rendono i suoi confusi discorsi simili a quelli di un poeta che lotta contro la disperazione interiore.
La trama del film è lineare, verosimile, comprensibile, caratteristiche mai date per scontate quando si parla di crime-comedy. Il mondo surreale con cui Dom interagisce tende verso una costante esagerazione comica delle situazioni in atto. Assistiamo a scene di presunta criminalità risolte come in un circo (indimenticabile la ‘prova della cassaforte’ parzialmente superata a suon di martellate); gangster che ancora ricordano con dolore la morte del gatto di casa; seducenti donne che approcciano uomini apprezzandone con esaltazione il mento.
Dovendo riportare fedelmente le caratteristiche di un individuo così imprevedibile e frenetico non si può tuttavia prescindere dalla particolare condizione con cui Dom deve fare i conti, nel momento in cui lo conosciamo: durante i suoi 12 anni di reclusione sua figlia è cresciuta senza un vero padre e oppone resistenza ai tentativi di riavvicinamento del pentito genitore ora libero, tutto ciò mentre la madre è morta per malattia. E’ naturale quindi che la sopra citata esagerazione comica degli avvenimenti nel suo complesso stia solo alla superficie della vicenda di Dom, la cui verità giace nella tragedia che lo ha logorato durante gli anni in prigione.
“Dom Hemingway” conquista il suo pubblico anche e soprattutto perché Law e il suo incontenibile personaggio non smettono mai di sorprendere, fino all’ultima indimenticabile scena in cui stupore e sorrisi si fondono a simboleggiare una ritrovata serenità del protagonista. Domingo Hemingway (Jude Law) è un famigerato ladro londinese. Uscito di prigione dopo 12 anni (del suo passato criminale nessun cenno), Dom ha un solo pensiero in testa: conquistarsi ciò che gli spetta per aver taciuto riguardo agli affari malavitosi di cui era a conoscenza. Con l’aiuto del compagno di affari e rapine Dickie (Richard E. Grant), giungerà presto alla villa del capo Monsieur Fontaine, ricco delinquente russo, per la promessa ricompensa. Tra folli peripezie e colpi di scena, Dom riuscirà a ritrovare i valori da cui gli anni di sofferenza e solitudine in cella l’avevano allontanato, senza tuttavia abbandonare i vizi e i comportamenti squilibrati che fanno parte della sua stessa natura.
Il personaggio principale è protagonista assoluto non solo della trama, ma di ogni dialogo e inquadratura. Jude Law entra magistralmente nella parte dando a Dom caratteristiche estreme: ogni espressione, ogni parola è caricata di una vena che sta a metà tra il delirio di onnipotenza e la malinconica disperazione. Dom è un personaggio contradditorio. Presuntuoso, pressapochista, impulsivo nei gesti, intreccia al tempo stesso dialoghi fortemente sarcastici, raffinatamente teatrali, a tratti onirici, lasciando gli altri personaggi (e noi spettatori) sorpresi e interdetti. Dom conferisce al suo linguaggio, superficialmente rozzo e volgare, spontaneità e autenticità che rendono i suoi confusi discorsi simili a quelli di un poeta che lotta contro la disperazione interiore.
La trama del film è lineare, verosimile, comprensibile, caratteristiche mai date per scontate quando si parla di crime-comedy. Il mondo surreale con cui Dom interagisce tende verso una costante esagerazione comica delle situazioni in atto. Assistiamo a scene di presunta criminalità risolte come in un circo (indimenticabile la ‘prova della cassaforte’ parzialmente superata a suon di martellate); gangster che ancora ricordano con dolore la morte del gatto di casa; seducenti donne che approcciano uomini apprezzandone con esaltazione il mento.
Dovendo riportare fedelmente le caratteristiche di un individuo così imprevedibile e frenetico non si può tuttavia prescindere dalla particolare condizione con cui Dom deve fare i conti, nel momento in cui lo conosciamo: durante i suoi 12 anni di reclusione sua figlia è cresciuta senza un vero padre e oppone resistenza ai tentativi di riavvicinamento del pentito genitore ora libero, tutto ciò mentre la madre è morta per malattia. E’ naturale quindi che la sopra citata esagerazione comica degli avvenimenti nel suo complesso stia solo alla superficie della vicenda di Dom, la cui verità giace nella tragedia che lo ha logorato durante gli anni in prigione.
“Dom Hemingway” conquista il suo pubblico anche e soprattutto perché Law e il suo incontenibile personaggio non smettono mai di sorprendere, fino all’ultima indimenticabile scena in cui stupore e sorrisi si fondono a simboleggiare una ritrovata serenità del protagonista.
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